di
Francesco Bevilacqua
16-05-2012
Nel suo libro, l’autore e conduttore radiofonico Daniele Biacchessi racconta le storie dei reporter uccisi, in molti casi in circostanze mai chiarite - mentre svolgevano il proprio lavoro - partendo dalla descrizione del loro percorso umano e professionale e cimentandosi in un’analisi delle implicazioni politiche delle vicende.
Secondo una stima resa pubblica da Reporter Senza Frontiere pochi giorni fa, in occasione delle celebrazioni per la Giornata mondiale della libertà di stampa, ogni cinque giorni nel mondo viene ucciso un giornalista, blogger od operatore del settore dell’informazione.
Fra le migliaia di casi degli ultimi anni, alcuni hanno colpito da vicino noi italiani: vicende umane che nascondono ancora oggi, dopo anni, intrighi politici, militari ed economici di grande rilevanza e mai svelati. Protagonisti, loro malgrado, reporter, fotografi e cineoperatori macchiatisi della sola colpa di aver cercato di placare la loro sete di verità, seguendo la strada indicata dalla passione per il loro lavoro, inteso come una vocazione e non come una semplice professione: informare il mondo su quanto accade, amplificare le flebili voci dei più deboli, provenienti in particolare dalle zone più disagiate del pianeta, tormentate da conflitti e oppresse da regimi autoritari.
Cinque di queste storie sono state raccontate da Daniele Biacchessi nel suo libro Passione reporter – Il giornalismo come vocazione, pubblicato nel 2009 da Chiarelettere. Cinque omicidi che hanno almeno due caratteristiche in comune: hanno colpito inviati dell’informazione in zone di guerra e nascondono inquietanti retroscena che ancora oggi non sono stati rivelati dalla giustizia italiana e internazionale, pesanti implicazioni politiche sulle quali si è preferito tacere.
Conformemente con lo spirito dei personaggi di cui scrive nel suo libro, Biacchessi ripropone una riflessione sulle ragioni e sulle connessioni di queste morti, invitando l’opinione pubblica e gli addetti ai lavori a ricominciare a scavare per portare alla luce i dettagli di casi dimenticati troppo in fretta.
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Raffaele Ciriello, Maria Grazia Cutuli, Antonio Russo, Enzo Baldoni. Tragedie consumatesi in luoghi differenti, dalla Somalia all’Afghanistan, ma accomunate quasi sempre dall’impunità degli esecutori materiali e, soprattutto, dei mandanti degli omicidi. Di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin abbiamo già parlato recentemente, ricordandoli nel diciottesimo anniversario della loro scomparsa e ripercorrendo brevemente le tappe del percorso giudiziario che, dissimilmente da quanto emerso dalle analisi legali, politiche e giornalistiche della vicenda, non ha ancora stabilito quanto accaduto quel 20 marzo 1994 a Mogadiscio. Come avviene spesso, una verità storica ormai comprovata non viene avvalorata da una giustizia pesantemente inficiata da soggetti che hanno interesse che la realtà dei fatti non venga confermata e i colpevoli perseguiti.
Differente la vicenda del fotoreporter Raffaele Ciriello, ucciso il 13 marzo 2002 a Ramallah da una raffica partita da un carro armato israeliano. L’allora governo Sharon, rifiutando di perseguire il militare responsabile dell’uccisione, addossò la colpa di quanto accaduto allo stesso Ciriello, reo di essersi infiltrato in una zona off-limits e di non essersi segnalato come reporter. Ancora più deprecabile del 'muro di gomma' israeliano è stato l’atteggiamento delle istituzioni italiane, impegnate più a sperticarsi in commosse celebrazioni politically correct che ad adoperarsi per accertare la verità e porre gli assassini di fronte alle loro responsabilità giudiziarie, pur con il rischio di pestare i piedi ad un alleato potente e prepotente come Israele.
Il caso forse più complesso e inintelligibile è quello del freelance abruzzese Antonio Russo, scomparso misteriosamente dall’abitazione che occupava temporaneamente a Tbilisi, in Georgia, e ritrovato ai bordi di una strada, ucciso con la tecnica dello schiacciamento toracico, distintiva dell’FSB, i servizi segreti che hanno raccolto l’eredità del KGB. Russo si trovava in Georgia per raccontare la guerriglia cecena, storica spina del fianco del governo russo.
Sulla sua morte non è mai stata fatta chiarezza, né da parte degli intricati e corrotti apparati politici e giuridici russo e georgiano, né dalle istituzioni italiane, anche in questo caso troppo concentrate in delicati equilibrismi diplomatici per rendere giustizia a un loro concittadino assassinato in circostanze misteriose.
Probabilmente più chiara ma altrettanto ingiusta è stata la fine di Maria Grazia Cutuli, inviata del Corriere della Sera trucidata in Afghanistan nel 2001 insieme ad altri quattro colleghi stranieri. I suoi assassini sono stati individuati, processati e condannati, ma ancora non è chiaro il movente politico del tragico gesto. Si suppone che sia stato un tentativo di intimidazione nei confronti della stampa internazionale, ma la scoperta effettuata da Maria Grazia di un deposito di gas Sarin presso il sito di Farm Hada, raccontata in un reportage pubblicato dal Corriere della Sera lo stesso giorno dell’omicidio, avvalora le tesi che individuano un movente legato a implicazioni ben più profonde di un avvertimento politico.
L’ultimo caso descritto da Biacchessi è quello del corrispondente di Diario Enzo Baldoni, ucciso in Iraq il 26 agosto del 2004. Personaggio eclettico, fantasioso e generoso, Baldoni si è sempre dedicato alla difesa dei più deboli. In Iraq, all’attività di informazione aveva affiancato quella di servizio a fianco della Croce Rossa. È proprio durante una missione congiunta a Najaf che il reporter viene sequestrato dall’Esercito Islamico in Iraq. È il 20 agosto e la sua prigionia durerà sei giorni. Più delle implicazioni politiche, in questo caso addolora una clamorosa contraddizione: vittima e strumento di rivendicazioni è stata una persona che tanto aveva fatto non solo per raccontarne le sofferenze, ma anche per aiutare fattivamente il popolo iracheno.
Nel suo libro Biacchessi racconta queste cinque storie, riaprendo doverosamente capitoli ormai chiusi della storia geopolitica e giudiziaria italiana e internazionale, ma soprattutto raccontando il lato umano di persone che hanno perso la vita seguendo la propria vocazione: il giornalismo, raccontare la verità, scoprirla e toccarla con mano sul campo, per quanto pericoloso questo si potesse rivelare.
In apertura del testo vengono riportate le parole pronunciate da Giorgio Bocca in occasione della consegna del Premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008: “Durante la mia professione mi sono sempre chiesto se vale la pena di morire per il giornalismo. La vicenda di Ilaria Alpi con le bugie e le menzogne connesse ci dimostra che non ne vale la pena. Ma c’è sempre la speranza che le cose cambino”. Personalmente mi sento di controbattere che certamente vale la pena di morire per ciò in cui si crede, sia essa la missione di raccontare la verità o qualsiasi altra cosa.
Le morti di Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Raffaele Ciriello, Maria Grazia Cutuli, Antonio Russo ed Enzo Baldoni non avranno avuto un valore dal punto di vista politico o giudiziario, ma sicuramente rappresentano un altissimo esempio di saldezza e convinzione nelle proprie idee e nei principi su cui esse si fondano. Sta a noi, posteri ed eredi di questi e dei tanti altri operatori dell’informazione che hanno dato la vita durante lo svolgimento della loro missione, adoperarci per far sì che il loro esempio serva davvero a cambiare qualcosa, a eliminare le storture e le ingiustizie contro cui si sono battuti brandendo la sola, potentissima arma che possedevano: la penna.
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