di
Francesco Bevilacqua
20-02-2012
L’attività estrattiva in Italia prosegue in maniera costante ma disordinata: la regolamentazione è carente e la pianificazione pessima. Analizziamo il caso dell’Abruzzo, dove il tema è caldo anche sul piano politico.
Secondo il corposo Rapporto Cave 2011 compilato da Legambiente, l’Italia è uno dei paesi al mondo in cui l’attività estrattiva, almeno in proporzione al numero di abitanti e alle risorse del territorio, è più sviluppata. Le 5.736 cave attive hanno prodotto nel 2010 più di 90 milioni di tonnellate di sabbia e ghiaia. È importante sottolineare questo dato poiché i due materiali citati sono le materie prime fondamentali per l’attività edilizia.
Questo ci porta alla conclusione che, nonostante la crisi di settore che già da diversi anni sta piegando il mercato degli immobili, la 'catena di montaggio' non si è fermata: è stato calcolato che il consumo pro capite di cemento per gli italiani è stato, sempre nel 2010, di 565 chili, contro i 532 della Spagna, 313 del Regno Unito e 301 della Germania. Come per l’attività petrolifera, causa-effetto di questa situazione sono i canoni di estrazione sensibilmente più bassi rispetto alla media europea: in Italia gli operatori devono corrispondere mediamente il 4% del prezzo finale del prodotto in oneri, con alcune clamorose falle normative – Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna – dove tale onere non è neanche previsto.
Queste (Sicilia a parte) sono alcune delle otto regioni italiane che non hanno uno specifico piano cave. Veneto, Friuli, Campania, Molise e Abruzzo le rimanenti. Proprio in quest’ultima, la tematica è calda e al centro del dibattito di questi giorni. L’ultima legge regionale sulle attività estrattive risale al 26 luglio del 1983 (è la legge 54) e prevedeva che entro il 31 dicembre 1989 venisse predisposto un apposito piano cave che regolasse l’attività estrattiva in territorio abruzzese. Questa disposizione non è mai stata eseguita e la materia è ancora regolamentata da una norma transitoria.
La legge finanziaria regionale del 2012 ha riportato il piano cave al centro della discussione, poiché prevede, all’articolo 29, che “per l’esercizio di nuove attività estrattive e di escavazione, per la coltivazione di cave e torbiere, sia sospeso fino all’approvazione del Piano regionale per l’esercizio delle attività estrattive e di escavazione”, proprio come indicato a suo tempo dalla famigerata legge 54, rimasta lettera morta. A questo proposito, è stata fissata una nuova decorrenza – diciotto mesi – per licenziare finalmente un piano cave definitivo. È importante sottolineare che la moratoria è applicabile solo alle concessioni per nuove attività, escludendo quelle semplicemente rinnovate prima del 30 dicembre 2011.
Subito si è acceso lo scontro politico: all’interno del Consiglio Regionale, il PDL ha dapprima avallato la decisione, che si deve ad un emendamento presentato da due consiglieri dei gruppi di Rifondazione Comunista e Comunisti Italiani, per poi proporre una tranche di emendamenti volti a cancellare la moratoria. Decisa è stata anche la presa di posizione delle associazioni di categoria: Confindustria, Ance Abruzzo e Confapi hanno contestato duramente la sospensione, ricordando che il dieci per cento del PIL regionale si deve a questo settore. Le cave attive in Abruzzo sono 239 e ogni anno forniscono circa 3 milioni di metri cubi di sabbia e ghiaia, più altri 2,7 milioni di pietre e argilla.
La situazione abruzzese è lo specchio di quella nazionale, che va in netta controtendenza rispetto non solo al buon senso e al realismo di fronte a un tasso di consumo di territorio fisiologicamente insostenibile, ma anche a una precisa linea politica dettata dall’Unione Europea. La direttiva 98 del 2008 stabilisce infatti che entro il 2020 il 70% della materia prima per l’attività edilizia dovrà provenire dal riciclo di rifiuti inerti.
Oggi alcuni paesi (Germania, Danimarca, Olanda, Irlanda, Estonia) sono già abbondantemente in linea con la previsione, molti altri sono vicini, ma non l’Italia, che è ferma al 10%. Anche dal punto di vista occupazionale e imprenditoriale, il riciclaggio rappresenta un campo promettente, nel quale si stanno cimentando sempre più imprese anche nel nostro paese. Proprio questa potrebbe essere una risposta alle preoccupazioni di Confindustria, che teme ripercussioni sui 6.500 lavoratori – più di 15.000 se si considera l’indotto allargato – del comparto estrattivo ed edilizio abruzzese.