Che sia in atto un profondo impoverimento culturale ed uno svuotamento dei diritti sociali non occorre certo ripeterlo. Il segnale per eccellenza di questa crisi è rappresentato dall'abbandono e dalla chiusura di quegli spazi che sono, invece, intesi a garantire forme diverse di socialità e di vita, come il teatro. Ma cosa succede quando, in un luogo cieco, come un palco settecentesco adibito a rimessa di biciclette, si torna a fare cultura, con rappresentazioni, lezioni ed incontri reali? Lo abbiamo chiesto ad Anna, che del Teatro Rossi Aperto, questo “parente lontano” in una città che “si riempie di vetrine per svuotarsi di senso”, conosce la storia e la rilevanza. Come è nata l'idea di riaprire il teatro Rossi? È un'idea partita più di sei mesi fa da un gruppo di studenti universitari, che hanno indetto un'assemblea pubblica assieme ai lavoratori dello spettacolo. Avendo seguito nel corso del tempo le vicende degli altri teatri occupati in Italia (Roma, Palermo, Catania, Milano e Napoli), ci siamo interrogati su quello che sarebbe potuto accadere a Pisa provando a intraprendere la stessa strada. Ci siamo documentati sulla storia artistica e istituzionale e sulle condizioni del Rossi, e abbiamo pensato che fosse una profonda ingiustizia celare ai cittadini un luogo di tale bellezza e tale potenzialità. Riaprendolo abbiamo voluto restituirlo alla città, per fare in modo che chiunque potesse entrare, guardare, fermarsi, parlare, chiedere, partecipare e tornare. Soprattutto ognuno è libero di offrire le proprie competenze artistiche, culturali, tecniche o semplicemente la propria volontà e dedizione. Tornare al Rossi significa fare un pezzo di strada con noi, lasciare una firma, un segno, un sorriso, un grazie, un'offerta; trovare qualcosa che prima non esisteva. Abbiamo scoperto uno spazio chiuso e vuoto, l'abbiamo aperto a tutti e lo vogliamo riempire. Per questo motivo noi adesso siamo cittadini, abitanti del quartiere, studenti, lavoratori dello spettacolo, precari della conoscenza, professori. Siamo tutti al Teatro Rossi perché finalmente abbiamo trovato un luogo dove poterci incontrare, dove poter tornare ad immaginare insieme, dove sperimentare, dove sognare un futuro diverso, come piace a noi. Noi siamo tanti e non è così facile definirci. E a noi va bene così. In quali condizioni avete trovato il teatro? Il teatro era chiuso e abbandonato a se stesso da anni: gli ultimi lavori sono stati interrotti bruscamente pochi anni fa. Ci sono stati eventi organizzati dal Teatro Verdi e dalla Scuola Normale Superiore, ma l'edificio è stato dichiarato chiuso ed inagibile nel 2005. Attualmente il progetto per il suo recupero è bloccato per mancanza di fondi. Abbiamo trovato ovunque piccioni e polvere, segni del cantiere abbandonato da un giorno all'altro, tracce di bivacchi di senzatetto che avevano trovato rifugio nelle sale granducali. Stiamo lentamente mettendo in opera un lavoro di riqualificazione dello spazio: si tratta di lavorare duramente per pulire, rimettere in funzione le vecchie panche, liberare stanze da macerie e calcinacci, residui di interventi mai rimossi, trovare soluzioni per illuminarci e riscaldarci, dato che siamo partiti senza corrente e senza riscaldamento. Fa impressione confrontare le zone dell'ingresso e del foyer, tirate a lucido e restaurate di fresco con sfarzo (anche eccessivo), con le zone più addentrate dei corridoi superiori, cadenti e polverose. Quali riscontri avete avuto da parte della cittadinanza? Siamo commossi e soddisfatti per il calore con cui la cittadinanza ci ha accolti, per il sostegno e la pazienza dei vicini di casa, per la gratitudine di quelli che passano e ci ringraziano perché non erano mai potuti entrare a vedere cosa ci fosse dietro quelle porte sempre chiuse, o di quelli che invece ci raccontano com'era vivo il teatro quand'erano giovani, prima e subito dopo la guerra. Nonostante ci siano spettacoli e iniziative quasi ogni sera, continuiamo ad avere sempre spettatori e partecipanti, segno che abbiamo intercettato una reale esigenza da parte dei cittadini, una sete che per ora non si è ancora estinta. Durante le mattine il Rossi ha ospitato lezioni di professori e nei pomeriggi lezioni di teatro, danza, conferenze, assemblee. Hanno partecipato, fra gli altri, Marta Cuscunà, Enrico Ghezzi, Armando Punzo, Paolo Benvenuti, Philippe Garrel, il Teatro del Carretto, Gabriele Vacis, Carlo Ipata, Les Anarchistes, Beatrice Meoni, Isabella Staino e Cesar Brie. La sera si tengono concerti, letture, performance: l'entusiasmo è il comune denominatore di tutte queste iniziative. È l'idea che fare cultura sia qualcosa di più importante che creare eventi. Vogliamo che dentro questo luogo le arti e i saperi possano contaminarsi e mescolarsi, e che i processi creativi siano partecipati e aperti al pubblico. Per questo abbiamo deciso fin da subito di dialogare con la sopraintendenza, a cui la gestione del teatro è affidata. Non ci interessa un recupero filologico con stucchi e velluti, che porterebbe soltanto ad imbalsamare le potenzialità dello spazio. Crediamo che il recupero del Teatro possa avvenire soltanto se tutti mettono a disposizione le loro competenze. In questo modo il costo sarebbe sensibilmente ridotto rispetto ad un investimento per un restauro totale, e avrebbe il vantaggio di consegnare a Pisa il suo Teatro in tempi ragionevolmente brevi. Pensi che la riapertura del teatro possa avere una rilevanza anche simbolica in questo particolare momento di crisi non solo economica, ma soprattutto sociale e culturale? Certamente. Dal mio punto di vista credo che provare a costruire in tempo di crisi, ricercare una nuova bellezza e una nuova gioiosità, quando ovunque si parla di austerità, sacrificio e tagli, abbia una valenza fortemente simbolica. Ritengo che ci sia modo per combattere contro il grigio che avanza, per reclamare la cura di ogni aspetto della nostra vita, per dire che vogliamo di meglio e che siamo in grado di trovarlo. Ma non si tratta solo di simboli. Crediamo davvero che questa sia l'alternativa alla logica della crisi, dell'indebitamento collettivo, del sacrificio e della lotta di tutti contro tutti, poveri per primi. La soluzione è nella cura di uno spazio che ci appartiene, per sottrarlo al degrado mediante la produzione comune e del basso di arti e saperi che generano socialità.
Fotografia di Guido Mencari / www.gmencari.com
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