In gran parte dell'Europa negli ultimi decenni l'agricoltura ha subito profondi cambiamenti. Negative sono state però le conseguenze della Politica Agricoltura Comune sulla biodiversità, sull'ambiente nonché sul lavoro dei contadini.
L’agricoltura, nella stragrande maggioranza dei paesi europei ed anche in buona parte del mondo, ha radicalmente cambiato metodi e ritmi negli ultimi 30-40 anni; un cambiamento tale da risultare una vera e propria rivoluzione. Ma, come talvolta succede, i risultati di questa rivoluzione sono tutt’altro che positivi, sia dal punto di vista ambientale sia dal punto di vista agronomico ed economico.
La meccanizzazione agricola ha reso sempre più omogenee le colture e più vasti gli spazi ad esse destinati, ma ha impoverito in maniera precipitosa la biodiversità delle colture ed anche quella degli ecosistemi naturali. Se un tempo vi erano, ad esempio, una grandissima varietà di tipi di grano, adatti a climi, terreni e agricoltori diversi, oggi a livello mondiale le cultivar maggiormente utilizzate di questo cereale si contano sulle dita di due mani e la produzione dei semi è un monopolio di pochissime aziende.
Questa catena di cambiamenti non ha solo reso il contadino schiavo del petrolio, indispensabile per l’utilizzo di innumerevoli e sempre più grandi macchinari e per la produzione di pesticidi e concimi chimici; ma ha danneggiato in maniera probabilmente irreparabile gli equilibri degli ambienti in cui esso lavora.
Un recente resoconto di BirdLife International e dell’European Bird Census Council rivela dati a dir poco allarmanti che riguardano gli uccelli. Nella sola Europa si sono persi in 30 anni trecento milioni di volatili fortemente legati all’ambiente agricolo. Questo è avvenuto a causa della meccanizzazione agricola e per colpa dell’uso criminale di molteplici sostanze chimiche quali nitrati, pesticidi, erbicidi, e dell’uso smodato di risorse idriche.
L’Italia ha visto ridursi numerose specie di uccelli, un tempo comuni frequentatrici dei nostri campi, come la quaglia, il re di quaglie, le averle, le starne, le tottaville. Molte specie, come le quaglie, ma anche le allodole, le cappellacce ed innumerevoli altri passeriformi hanno l’abitudine di nidificare al suolo costruendo una coppa di fili d’erba intrecciati, ben nascosta dal prato stesso. Con i metodi agricoli tradizionali, la nidificazione non era messa in pericolo, ma oggi il passaggio di macchinari molto veloci e potenti provoca la distruzione della gran parte dei nidi ed il disturbo per quelli sopravvissuti.
A farne le spese non sono solo gli uccelli ma anche le loro prede, ovvero gli insetti.
Uno studio recente dell’University College Dublin rivela che l’abbondanza e la diversità di specie dei bombi (un tipo di api molto importanti per l’impollinazione) è diminuito del 50% negli ultimi 20-30 anni. Altri studi similari sono stati svolti da progetti europei e nazionali con l’intento di verificare il declino e la capacità di sopravvivenza degli insetti in ambienti agricoli fortemente sfruttati. Tali studi hanno confermato che molte specie di insetti difficilmente sopravvivono alle pratiche di un agricoltura intensiva, tanto da venire considerati dei bioindicatori .
Ciò significa che la presenza di tali animali rivela un ambiente sano o poco sfruttato; viceversa la loro assenza è un campanello d’allarme per la biodiversità e la salute dell’ambiente. Studi di questo tipo sono stati pubblicati recentemente ed un esempio si può trovare sulla rivista scientifica Agriculture, Ecosystems and Environment 98 (2003).
Ed ecco dunque che ritorniamo agli uccelli; la loro dieta è prevalentemente composta da insetti, ed il declino di questi ultimi provoca un conseguente declino anche dei loro predatori.
Fondamentali nella dieta sono anche i semi e le parti vegetali, ma anche in questo caso un autorevole studio dal titolo “La gestione dei pascoli di pianura neutri in Gran Bretagna: effetti delle pratiche agricole sugli uccelli e le loro risorse alimentari” pubblicato dal Journal of Applied Ecology (2001) numero 38, rivela che l’agricoltura intensiva con la massiccia lavorazione e fertilizzazione chimica del terreno ha prodotto un impoverimento notevole nella biodiversità vegetale, con un’omologazione delle erbe (poche varietà di erbe su estese superfici) e questo dato sembra influire negativamente sulla vita degli uccelli.
Tutte queste specie di animali e piante sono ancora presenti laddove l’agricoltura ha mantenuto metodi tradizionali e non si è trasformata in industria intensiva, ma questi spazi tendono inesorabilmente a scomparire.
Questo accade perché in realtà la politica economica dell’Unione Europea e dei suoi vari stati incentiva molto poco l’agricoltura tradizionale, già di per sé svantaggiata nell’accesso ai canali di distribuzione dei prodotti, ed invece avvantaggia, sia a livello legislativo che tramite sovvenzioni, l’attività agricola industriale.
Tale politica ha tra le sue conseguenze anche il progressivo abbandono dell’attività agropastorale in quei luoghi dove i metodi industriali non sono praticabili (ad esempio in media ed alta montagna ).
L’abbandono di queste terre, se da un lato favorisce lo sviluppo dei boschi e delle foreste, dall’altro distrugge l’habitat agricolo e pastorale tipico di questi territori, e a scomparire non sono solo gli animali e le piante che tipicamente lo abitavano, ma anche le tradizioni e le opere contadine, come i terrazzamenti, i mulini ad acqua, gli alberi 'sostegno' (ovvero alberi particolarmente duttili alla potatura, che venivano utilizzati come sostegno per la crescita di altre piante come la vite).
Se poi andiamo a vedere i dati del settore agricolo, ci rendiamo conto che in un paese come l’Italia l’età media degli agricoltori è molto alta, con più del 40% degli addetti a questo settore con un’ età superiore ai 65 anni. Come già ricordato poi nell’interessante articolo di Daniela Sciarra, i dati Istat sul declino delle aziende agricole (in particolare quelle medio-piccole) raggiungono livelli incredibili, con il 32,2% di tali aziende chiuse in dieci anni, dal 2000 al 2010, e 300 mila ettari di superficie coltivata persi.
Insomma, la Politica Agricola Comune non solo sta distruggendo l’ambiente e la biodiversità ma provoca anche l’estinzione di una figura storica e culturale fondamentale imprescindibile per l’umanità: il contadino.
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