di
Elisabeth Zoja
08-09-2010
Durante i mondiali di calcio in Sudafrica sono state messe in vendita 80.000 t-shirt di cotone biologico prodotto in Africa. Questo materiale è ormai diventato simbolo dell'esportazione africana ma anche sinonimo di un cambiamento sociale e culturale nel continente. Basti pensare che per molte donne la coltivazione di questi semi ha significato guadagnare "dei soldi per sé".
"L’occasione dei mondiali di calcio potrebbe servire per soffermare la nostra attenzione su quel grande continente che è l’Africa, le sue storie, le sue contraddizioni, le sue possibilità di crescita" dichiara Francesco Sanna, senatore e rappresentante del PD.
Una di queste 'possibilità di crescita' sta proprio nel cotone biologico, perciò durante i mondiali la 'comunità economica solidale 'Mediaxion' ha messo in vendita 80.000 t-shirt realizzate in cotone biologico prodotto in Africa. L’obiettivo è sia quello di contribuire allo sviluppo sostenibile di comunità africane, sia di portare all’attenzione le problematiche e le potenzialità di questo continente.
Le 80.000 magliette portano il marchio equo e solidale o Fair trade, nato nel 1970 con lo slogan trade but not aid. I capi sono però stati fabbricati da Coop Italia, dunque solo la materia prima proviene dall’Africa. "Per stabilire condizioni davvero eque bisognerebbe lavorare il cotone biologico sul posto", spiega Hervé Le Gal, delegato di Ingalan, associazione bretone che promuove il commercio equo. Così si creerebbe occupazione e si ridurrebbe l’emigrazione di giovani africani. Mentre la coltivazione di cotone biologico richiede pochi investimenti, però, per la produzione di capi di abbigliamento vale il contrario.
Il mercato del cotone africano è comunque in forte crescita, soprattutto in paesi agricoli come il Mali e il Burkina Faso, dove rispettivamente il 70% e il 50% della popolazione è contadina. Inoltre, in quest’ultimo paese la metà degli introiti ricavati dalle esportazioni deriva dalla produzione di cotone.
Per quel che riguarda il cotone biologico in particolare, questi paesi confinanti hanno prodotto 20 tonnellate nel 2002 e 2.180 nel 2008/09: una quantità che si è moltiplicata per 100 nel giro di 6-7anni.
"In Mali abbiamo dovuto sfidare il dogma dell’azienda produttrice di stato, secondo cui se non si usano pesticidi e fertilizzanti, si raccoglieranno solo foglie - spiega Sidi el Moctar N’Guiro, direttore del Movimento biologico maliniano -. L’azienda accusava perfino i campi di cotone biologici di essere una riserva di insetti pericolosi".
L’agricoltura biologica, infatti, non fa uso di insetticidi, pesticidi o fertilizzanti chimici. Al posto di questi ultimi richiede l’utilizzo del compost, che viene ottenuto da rifiuti organici, paglia ed escrementi animali. Per questo la produzione di cotone biologico non richiede grandi investimenti, il che limita i rischi in caso di cattivo raccolto.
Inoltre, l’assenza di additivi chimici permette anche alle donne (molto spesso incinte o con neonati sulla schiena) di lavorare il cotone. "Da noi ormai le donne lavorano solo il koori horon, altrimenti starnutiscono", afferma Colette Traoré, la direttrice di un’associazione che riunisce venti artigiane di Segou, in Mali. Koori horon significa 'cotone nobile' in bambaro, in opposizione a quello transgenico, che rappresenta ormai il 43% della produzione mondiale di cotone.
La fibra biologica rappresenta dunque una possibilità di emancipazione per le donne africane: queste donne non possiedono ancora terreno proprio, ma gli uomini accettano che coltivino 'cotone nobile' sulle loro terre messe a maggese. "Con la coltivazione biologica le donne guadagno dei soldi per sé,” afferma Martin Konaté agente di divulgazione a Banfora, in Burkina Faso. "E poi studiano, viaggiano, decidono, dirigono associazioni. È cambiata la mentalità".
Il cotone biologico sta dunque cambiando strutture sociali, famigliari e soprattutto mentali. Rimangono però alcuni fattori paradossali ma comprensibili: gli africani producono cotone biologico e indossando quello transgenico.
"In Europa il cotone biologico prenderà sempre più piede, perché il cotone convenzionale ha un’immagine disastrosa - spiega Aida Duplessis, una delle poche disegnatrici africane di capi - in Africa questo processo richiederà più tempo, bisogna ancora soddisfare le necessità primarie".