E’ difficile trovare sulla stampa nazionale informazioni aggiornate su quello che può essere considerato il trattato ambientale più famoso al mondo: il protocollo di Kyoto. Che, seppur con i suoi limiti, costituì nel lontano 1997 quando fu siglato (poi entrato in vigore nel 2005) il primo tentativo riuscito di limitare e regolare le emissioni di gas serra a livello internazionale. In Italia si parla di esso e dei tentativi di proseguire la sua azione (in effetti il protocollo di Kyoto si è concluso nella sua prima fase 2008-2012) solo in occasione delle conferenze annuali sul Clima delle Nazioni Unite (UNFCCC) oppure sulle riviste specializzate di settore. Quasi mai si porta all’attenzione dell’opinione pubblica la situazione reale del nostro Paese nei confronti di questo importante impegno assunto. I temi che il protocollo di Kyoto tratta (energie rinnovabili, efficienza energetica, risparmio energetico, ecc.) dovrebbero in effetti diventare l’asse portante della politica economico-industriale del nostro Paese e non relegarli ad un ruolo marginale se non addirittura oggetto di critiche e attacchi per lasciare spazio ai soliti sostenitori delle fonti fossili di energia. L’occasione di portare questo tema all’attenzione dei lettori de “Il Cambiamento” è particolarmente interessante poiché chi scrive è fermamente convinto che “il cambiamento”- quello vero – si avrà solo quando un qualsiasi obiettivo verrà perseguito sulla base di un’analisi corretta dei dati di partenza e scevra da pregiudizi e/o interessi parziali.
Cos'è il protocollo di Kyoto
Iniziamo con il ricordare cosa è il Protocollo di Kyoto: un trattato internazionale nel quale i Paesi industrializzati (tranne alcune eccezioni come gli Stati Uniti d’America che si sono ritirati) si sono impegnati a ridurre le proprie emissioni di gas ad effetto serra, in particolare l’anidride carbonica. Il primo periodo di impegno del Protocollo è il quinquennio 2008-2012 e, su tale periodo, si verificheranno i risultati raggiunti. A livello globale la riduzione delle emissioni è stata fissata a circa il 5% rispetto all’anno di riferimento (1990), come media di impegni differenziati tra i vari Paesi o gruppi di Paesi. Ad esempio, l’Unione europea ha aderito a suo tempo con un impegno di riduzione dell’8% rispetto al 1990 e, al suo interno, i Paesi membri dell’Unione si sono suddivisi tale impegno sulla base di alcuni criteri e, ad esempio, per l’Italia la percentuale di riduzione è stata fissata al 6,5%, sempre rispetto al 1990. Agli altri Paesi entrati nell’Unione europea dopo il 1997 (a parte Cipro e Malta), con in aggiunta l’Islanda, il Liechtenstein, la Norvegia e la Svizzera, sono stati assegnati obiettivi individuali di limitazione e riduzione delle emissioni di gas climalteranti nell’ambito del Protocollo di Kyoto. Questi livelli di riduzione delle emissioni sono assolutamente insufficienti a contrastare i cambiamenti climatici in atto, tanto è vero che gli esperti dell’IPCC (il Panel Intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) non si stancano mai di ricordarci che sarebbe necessario un taglio delle emissioni del 80-90% entro il 2050 al fine di cercare di mantenere sotto un livello di guardia l’aumento della temperatura media del pianeta. In questo senso il protocollo di Kyoto andava visto come un primo passo nella giusta direzione. L’azione dell’Unione europea può considerarsi utile in quanto già unilateralmente ha deciso di ridurre le proprie emissioni del 20% entro il 2020 (Pacchetto Clima-Energia) e sta discutendo adesso di innalzare tale livello di riduzione al 30% entro il 2030. Ovviamente, all’interno dell’Unione europea non tutti i Paesi si comportano allo stesso modo ed anche in questa occasione sui limiti da introdurre per il 2030 ci sono paesi più “lungimiranti” che vedono nell’innalzamento dei limiti di riduzione delle emissioni anche un’opportunità economico-industriale per promuovere tecnologie che utilizzano fonti rinnovabili di energia o che facilitano l’efficienza e il risparmio energetico ed altri Paesi “meno lungimiranti” che dietro il falso problema del contenimento dei costi continuano a sostenere politiche energetiche di vecchio stampo.
Arriviamo alla questione dei risultati conseguiti dai vari Paesi europei nell’ambito del Protocollo. Ogni anno l’Agenzia europea per l’ambiente (Aea) fornisce un quadro esaustivo sui progressi dell’Europa nel raggiungimento dei propri obiettivi di politica energetica. Di recente è stata pubblicata l’edizione 2013 del rapporto “Trends and projections in Europe 2013 - Tracking progress towards Europe's climate and energy targets until 2020” che qui viene presentato in forma sintetica, limitatamente agli obiettivi assunti nell’ambito del Protocollo di Kyoto (2008-2012), con una particolare attenzione alla situazione dell’Italia.
L’attuazione del Protocollo di Kyoto
Con la pubblicazione delle ultime stime delle emissioni di gas climalteranti da parte dell’Aea e di 18 Stati membri, si rendono disponibili, per la prima volta, i dati completi sulle emissioni di gas climalteranti inerenti il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto (2008-2012). Questi dati permettono una più accurata valutazione - rispetto a quanto fatto negli anni precedenti - dei due grandi settori nei quali il Protocollo di Kyoto può essere idealmente suddiviso: quello del Sistema di Emissions Trading (ETS) che riguarda i grandi impianti industriali e quello degli altri settori diversi dall’ETS, cosiddetti non-ETS che riguarda settori molto importanti quali il residenziale, i trasporti, il terziario, l’agricoltura, i rifiuti. Come termine di paragone, a livello europeo le emissioni derivanti dai settori non-ETS sono circa il 60% del totale (il restante 40% dal settore ETS); nonostante ciò, nel primo periodo di impegno del Protocollo è stata data massima attenzione al settore ETS (con norme ben definite e vincolanti), lasciando le azioni nei settori non-ETS al buon cuore e alla lungimiranza degli amministratori locali, visto che nei settori non-ETS sono particolarmente coinvolti gli Enti locali e regionali. Nella fase post-2012 qualcosa è cambiato in Europa; con il pacchetto Clima-Energia al 2020 i settori non-ETS assumono un ruolo diverso, più importante, ma ne parleremo in un successivo articolo. Qui ci concentriamo sul primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto (2008-2012).
Senza entrare in un linguaggio prettamente tecnico, e semplificando al massimo, gli obiettivi di riduzione delle emissioni assunti dai Paesi corrispondono a permessi di emissione che non devono essere superati dai singoli Stati per il periodo 2008-2012. Per raggiungere i propri obiettivi, i Paesi devono quindi bilanciare le proprie emissioni con la quantità dei permessi a loro disposizione. Tale equilibrio può essere raggiunto limitando o riducendo le proprie emissioni a livello nazionale (ad esempio con programmi ed azioni che comportino un maggior ricorso alle energie rinnovabili o ad una maggiore efficienza energetica) ed aumentando la capacità di assorbimento dell’anidride carbonica da parte degli ecosistemi agro-forestali (carbon sink), in particolare attraverso la cosiddetta gestione forestale. Ma anche attraverso l’utilizzo dei cosiddetti meccanismi flessibili del Protocollo di Kyoto che permettono l’acquisto di permessi di emissione da altri Paesi, sia industrializzati che in via di sviluppo, confermando quella flessibilità insita nel Protocollo che permette di andare ad investire in Paesi ove i costi sono minori e ricavandone, tra i benefici, anche quello di avere a disposizione permessi di emissione più a buon mercato.
Lo schema ETS comunitario per raggiungere gli obiettivi di Kyoto
Lo schema ETS fu introdotto per aiutare gli Stati membri a raggiungere i propri obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto e, al contempo, raggiungere i livelli di riduzione delle emissioni nella maniera più efficiente ed economica possibile direttamente presso le fonti di inquinamento (impianti industriali emissivi di una certa dimensione). I partecipanti allo schema ETS sono obbligati (pena una sanzione economica) a bilanciare le proprie emissioni con la quantità di permessi di emissione a loro disposizione assegnata sulla base di alcuni parametri. Coloro che si trovano in una situazione di deficit possono acquistarne da coloro che ne dispongono in surplus oppure fare ricorso, in misura limitata, ai permessi di emissioni derivanti dai meccanismi flessibili del Protocollo di Kyoto di cui si è accennato sopra.
Lo schema ETS riguarda le emissioni di CO2 provenienti dal settore energetico, così come la maggior parte di quelle provenienti dagli impianti industriali (centrali termiche ed altri impianti di combustione, raffinerie, ecc.). Durante questo secondo periodo di trading nell’ambito dell’ETS, coincidente con il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto, sono state circa 11.500 le installazioni coinvolte in trenta diversi paesi (i 27 dell’Ue, Islanda, Liechtenstein e Norvegia). Nel loro insieme, questi impianti hanno prodotto circa 1,9 miliardi di tonnellate di CO2 in media all'anno, che equivale a circa il 41% delle emissioni di gas serra dell'Ue. Le emissioni di CO2 prodotte dal trasporto aereo sono state incluse nell’ETS solo a partire dal 2012.
Le emissioni nel periodo 2008-2012 sono state influenzate da una serie di fattori, quali le variazioni del mix di combustibile nella produzione di elettricità, che ha rilevato un maggior ricorso al gas, un maggior utilizzo di fonti rinnovabili e una minore produzione nei settori industriali causata dalla crisi economica. Una serie di azioni, tra le quali anche gli effetti della crisi economica, ha provocato un surplus di circa 1,8 miliardi di permessi di emissione. Le emissioni derivanti dai settori ETS si sono quindi ridotte al di sotto dei tetti massimi consentiti nella maggior parte degli Stati membri, mentre il raggiungimento degli obiettivi fissati per il settore non-ETS è apparso più difficile. La crisi ha avuto un maggiore impatto sulle emissioni nel sistema ETS in quanto i settori coinvolti erano più fortemente legati all’attività economica. La recessione, non prevista al tempo in cui furono stabiliti i tetti dell’ETS per il 2008-2012, ha fatto calare le emissioni nel comparto ETS più che in altri settori.
L’Ue in linea con gli obiettivi ma l’Italia arranca
L’obiettivo di riduzione delle emissioni dell’8% - rispetto al 1990 – nel periodo 2008-2012 sarà rispettato dall’Ue-15. La riduzione media è stata del 12,2% e, in termini quantitativi, si è superato l’obiettivo di circa 236 MtCO2 annue. Anche nel settore non-ETS le emissioni si sono ridotte, superando l’obiettivo di circa 95 MtCO2 annue. Per quanto riguarda i carbon sink (assorbimenti da attività agro-forestali), si stima (analisi svolta sui dati 2008-2011) un contributo pari a 64 MtCO2 annue. L’utilizzo dei meccanismi flessibili per nove Stati membri dell’Ue-15 è stimato essere pari ad un’ulteriore disponibilità di 81 MtCO2 annue. Di questi nove Stati membri, otto hanno presentato informazioni circostanziate sull’allocazione delle risorse finanziarie da utilizzare, pari a circa 2,3 miliardi di euro nel quinquennio di riferimento. L’unico Paese che non ha presentato informazioni chiare sulla disponibilità delle risorse finanziarie da utilizzare è l’Italia che, insieme al Lussemburgo, sono gli unici Paesi ove il prospettato utilizzo dei meccanismi flessibili, come attualmente riportato, non sarà comunque sufficiente per colmare il gap rilevato.
Quasi tutti i Paesi europei con un obiettivo individuale di riduzione o limitazione delle emissioni di gas serra nell’ambito del protocollo di Kyoto (26 Stati membri dell’Ue, Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera) risultano in linea nel raggiungimento dei propri obiettivi, migliorando quindi la situazione rispetto alle valutazioni fatte negli anni precedenti. Sei Stati membri dell’Ue-15 (Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Svezia e Regno Unito), tutti gli undici paesi dell’Ue-13 (quelli che hanno aderito all’Ue dopo il 2004) con un obiettivo quantificato nell’ambito del Protocollo di Kyoto, insieme a Islanda e Norvegia risultano in linea per il raggiungimento dei propri obiettivi di riduzione attraverso l’utilizzo di sole attività domestiche. Se si prendono in considerazioni anche le attività carbon sink, altri tre paesi dell’Ue-15 (Irlanda, Portogallo e Slovenia) risultano in linea nei rispettivi obiettivi da raggiungere.
Per raggiungere i propri obiettivi, nove Stati membri e il Liechtenstein avevano originariamente dato maggiore enfasi nella riduzione delle emissioni nei settori non-ETS (con il 2005 come anno base di riferimento), ove le azioni per ridurre le emissioni domestiche sono in generale più costose rispetto ai settori ETS. Entro la fine del primo periodo di impegno (e tenendo conto degli effetti delle attività carbon sink dichiarate), risulta ancora da colmare un divario nel settore non-ETS per l’Austria, il Belgio, la Danimarca, il Liechtenstein, l’Italia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi, la Spagna e la Svizzera. Tutti questi paesi, visto che eventuali surplus nei settori ETS non possono essere utilizzati per compensare i ritardi nei settori non-ETS, dovranno necessariamente colmare il divario con il ricorso ai meccanismi flessibili. Tra questi, il Belgio, l’Italia, il Liechtenstein, l’Olanda e la Svizzera dovranno anche acquistare permessi di emissione dal mercato internazionale per raggiungere i rispettivi obiettivi nazionali.
Austria, Liechtenstein, Lussemburgo e Spagna sono i paesi che registrano i gap più elevati, che intendono colmare acquistando significative quantità (tra il 13 e il 20% delle proprie emissioni) di permessi di emissione a livello nazionale, paragonate ad una media dell’1,9% per l’Ue-15. Tra questi paesi, l’Italia, il Lussemburgo e la Spagna sono quelli che risaltano maggiormente a causa delle loro specifiche peculiarità.
Nelle analisi degli anni precedenti, l’Italia viene considerato un paese sostanzialmente non in linea con il proprio obiettivo di riduzione delle emissioni, principalmente a causa del fatto che non ha fornito adeguate informazioni sulle proprie intenzioni di utilizzo dei meccanismi flessibili. Nel 2012 la media delle emissioni nazionali nei settori non-ETS è stata più alta, rispetto al corrispondente obiettivo da raggiungere, di circa 22,5 MtCO2/anno. Questo divario non è attualmente compensato dagli assorbimenti attesi dalle attività agro-forestali (che risultano essere di una quantità inferiore, 16,8 MtCO2/anno, sempreché si riuscirà a contabilizzare pienamente questo potenziale visto che si sono perse le tracce del Registro nazionale dei serbatoi di carbonio) e dalla quantità di permessi di emissione che il governo italiano ha previsto di contabilizzare nell’ambito dei meccanismi flessibili (2 MtCO2/anno). Tutto ciò porta l’Italia ad un gap annuale di 3,7 MtCO2/anno, che nel quinquennio di riferimento assomma in totale a 18,5 MtCO2. In termini monetari stiamo parlano di circa 90 milioni di euro, che potrebbero aumentare viste le fluttuazioni sul mercato della tonnellata di CO2, parametro di riferimento per i permessi di riduzione. Al momento non si sa come l’Italia farà fronte a questo “acquisto” sul mercato internazionale in quanto in nessuna delle ultime Leggi di Stabilità (Leggi Finanziarie) è stato mai fatto riferimento a tale impegno assunto dall’Italia.
Sulla base dell’ultimo Piano nazionale per la riduzione delle emissioni di gas climalteranti approvato dal Comitato interministeriale per la pianificazione economica (delibera CIPE n. 17/2013 dell’8 Marzo 2013), entro il 30 Novembre 2013 il Ministero dell’Ambiente italiano avrebbe dovuto trasmettere al CIPE le possibili opzioni per raggiungere l’obiettivo di Kyoto con particolare riferimento al portafoglio di AAUs/ERUs/CERs, cioè le diverse tipologie di permessi di emissione insiti nel protocollo di Kyoto - di cui non è oggetto di questo articolo analizzarne il dettaglio - con le relative risorse finanziarie necessarie per il loro acquisto. Molti sono dell’opinione che tali acquisti si sarebbero potuti evitare, magari investendo la stessa quantità di risorse in progetti a livello nazionale; ma non adesso durante il biennio 2014-2015 al fine di rientrare nei parametri di Kyoto (sempreché si trovi la copertura finanziaria), ciò andava fatto ben prima, magari con una pianificazione ed una strategia sui cambiamenti climatici più concreta e mirata. Ma al di là di questo, visto che ormai, purtroppo, non sembrano esserci altre alternative, rimane anche il fatto, come sottolinea il Rapporto dell’Aea, che ancora non si sa come il governo italiano intenda finanziare tale operazione di acquisto.
Nell’ambito dei settori ETS l’Italia ha deciso di ridurre le proprie emissioni di 30 MtCO2 rispetto ai livelli del 2005, pari a una diminuzione del 13%. Ciò ha comportato un ammontare delle emissioni permesse di 281 MtCO2/anno, che corrisponde ad una riduzione necessaria di 61 MtCO2/anno rispetto al 2005 (-18%) nei settori non-ETS. Le riduzioni effettivamente raggiunte sono state 39 MtCO2 in entrambi i settori (ETS e non-Ets). Ciò ha creato un surplus di 9 MtCO2 nel settore ETS e un gap di 23 MtCO2 in quello non-ETS.
In definitiva, l'ammontare dei crediti necessari per il nostro Paese per risultare in linea con gli obiettivi di Kyoto rappresenterebbe solo l’1,1% delle emissioni nell’anno base (1990) ma, nonostante ciò, come già ricordato, l'Italia rimane l’unico tra gli Stati membri dell'Ue-15 che intendono utilizzare i meccanismi flessibili a non aver fornito alcuna informazione sulla quantità di permessi di emissione che intende acquistare, né sulle risorse finanziarie stanziate per tale scopo.
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