Quattro obiettivi marginali e le priorità del nostro tempo

Acqua pubblica, cibo a chilometro zero, legno certificato, no agli inceneritori. Filippo Schillaci prende in esame quattro obiettivi al centro della gran parte delle battaglie ambientaliste attuali. Obiettivi del tutto condivisibili eppure marginali se confrontati con le autentiche priorità del nostro tempo che, dati alla mano, risultano essere ben altre.

Quattro obiettivi marginali e le priorità del nostro tempo
Spesso si ha la sensazione che in numerosi ambienti a vario titolo alternativi si vada verso direzioni stabilite non tanto in seguito ad analisi razionali della realtà, quanto per adesione acritica a parole d’ordine, a obiettivi standardizzati. E si ha la sensazione che la loro importanza sia più quella di essere definitori di un’identità di gruppo piuttosto che di essere davvero vie di cambiamento del mondo reale. Ecco quattro esempi di obiettivi in sé sicuramente giusti, ma del tutto secondari rispetto alle vere priorità che, alla prova dei numeri, risultano essere ben altre. Acqua pubblica!
Che l’acqua sia un bene comune (aggiungo: comune a tutti gli esseri viventi della Terra) e non una merce non c’è dubbio e che l’attuale contingenza politica italiana metta oggi questo aspetto del problema in primo piano è altrettanto normale. Ma si ha spesso la sensazione che per molti fra coloro che oggi si occupano di acqua tutto si riduca nel contenzioso pubblica/privata. Per altri, i più consapevoli delle esigenze di ecosostenibilità del nostro agire, a questo si aggiunge  il discorso dell’evitarne gli sprechi negli usi quotidiani. Quali usi? Tre esempi ricorrono in maniera pressoché esclusiva: l’eccessiva quantità di acqua che il nostro sciacquone riversa ogni giorno nel gabinetto, il rubinetto che abitualmente lasciamo aperto mentre ci laviamo i denti e la preferenza che accordiamo al bagno piuttosto che alla più parsimoniosa doccia. Tuttavia solo il 4% dell’acqua consumata nel mondo lo è per usi domestici. Un altro 26% viene consumato dall’industria mentre il rimanente 70% viene consumato dall’agricoltura e dalla zootecnia. A proposito dell’agricoltura, bisogna dire inoltre che una rilevante quota di essa (dal 30 al 60% a seconda dei Paesi) è destinata alla produzione di colture foraggiere destinate ad alimentare gli allevamenti. Ad esempio, in Italia è destinato a essi l’80% del mais prodotto. Nel mondo, il 50% dei cereali e il 90% della soia. Gli allevamenti inoltre consumano direttamente quantità sconcertanti di acqua. Basti dire che una singola mucca da latte ne beve l’incredibile quantità di 200 litri al giorno. Volendo riassumere tutto ciò in un dato numerico si può dire che per produrre un chilogrammo di carne rossa occorrono 15.500 litri di acqua (media mondiale) che in Italia giungono a 21.000 litri. Un singolo italiano, consumando 800 grammi di carne alla settimana, spreca in tal modo in un mese 67.200 litri di acqua. Una famiglia media, composta da quattro persone, ne spreca 268.800. Per confronto, è stato calcolato che la stessa famiglia che mettesse in atto con la massima attenzione tutti gli accorgimenti possibili per il risparmio dell’acqua per uso domestico (tipo doccia e sciacquone) riuscirebbe a risparmiarne appena 10.000 litri al mese. Appena un ventisettesimo del risparmio che otterrebbe semplicemente smettendo di mangiare carne. Che senso ha dunque battere così tanto sulla natura pubblica del bene acqua se allo stesso tempo continuiamo a sprecarne dissennatamente così tanta con scelte alimentari senza senso? Chi l’acqua non l’ha continuerà a non averla, pubblica o privata che sia. Cibo a Km 0!
Obiettivo sicuramente giusto: che senso ha che le noci che mangiamo vengano dal Canada o che il riso venga dalla Cina o che le arance vengano dalla Florida? Riso, arance e noci crescono bene anche da noi. In più, la vicinanza fra produttore e utilizzatore del prodotto rende quest’ultimo più consapevole delle modalità di produzione; lo avvicina, in altre parole, al mondo reale cui la propria vita è indissolubilmente legata. Tuttavia questo è solo un aspetto marginale del problema. Da uno studio della Carnegie Mellon University risulta che solo il 4% dei contributi della filiera alimentare all’effetto serra è dovuto al trasporto delle derrate, per lunghi che siano i percorsi. Un ulteriore 11% è dovuto al trasporto delle materie prime e infine ben l’83% è dovuto alla fase di produzione. L’83 per cento! Soffermandoci su quest’ultimo si scopre inoltre che esso non è equamente ripartito fra produzione di alimenti di origine animale e vegetale. Il contributo all’effetto serra dovuto agli alimenti di origine animale infatti è 8 volte superiore a quello degli alimenti di origine vegetale. Otto volte! Dunque, anche se tutto il cibo venisse prodotto a un passo da chi lo consuma ciò intaccherebbe solo in maniera insignificane le emissioni di gas serra. Ora, su cosa si concentrano le ricorrenti campagne per il 'cibo a Km 0' se non su quel marginale 4%? Non dovrebbe esso stare in fondo alla lista delle nostre priorità di educazione alla sostenibilità agroalimentare? Non dovremmo più coerentemente ed efficacemente promuovere un’alimentazione basata prevalentemente o totalmente sugli alimenti di origine vegetale? Legno certificato!
Non comprare legno che venga dall’abbattimento delle foreste primarie è senza alcun dubbio giusto. Esse sono un patrimonio che possiamo considerare rinnovabile solo considerando un arco di tempo molto superiore alla durata della nostra vita e prevedendo una quantità di sforzi colossale da parte nostra. Fermare la deforestazione è certamente uno degli obiettivi primari per la sopravvivenza della biosfera quale noi la conosciamo, e dunque di noi stessi. E a notare l’enfasi che viene messa da più parti sulla questione del legno certificato sembra quasi che il nocciolo del problema stia tutto lì. A volte ritroviamo questa versione anche su fonti specialistiche. In un massiccio trattato di ecologia vegetale [1] si legge ad esempio che "La vegetazione della foresta viene tagliata per vendere legname pregiato oppure come combustibile"; in altri casi la foresta viene bruciata per realizzarvi "colture effimere di mais e manioca" e più avanti si afferma che le foreste sono "oggetto di un intenso sfruttamento industriale per ricavarne legno pregiato". Tuttavia solo il 3% delle aree disboscate sono tali per la commercializzazione del legname. Il 60% viene distrutto per trasformare quelle aree in pascoli. Spesso gli alberi non vengono abbattuti bensì bruciati in giganteschi incendi con fronti di fuoco di svariati chilometri in cui trovano ovviamente la morte tutte le forme di vita che la foresta ospita e che si lasciano dietro una desolazione che solo per pochi anni ospiterà le grandi mandrie di bovini. Esse esauriranno definitivamente le residue risorse del suolo e dove era la rigogliosa foresta rimarrà una landa sterile popolata soltanto di sterpaglia. Non è per caso che Chico Mendes, come molti altri prima è dopo di lui, sia stato assassinato da due allevatori, non da due falegnami. No all’inceneritore!
Opporsi alla costruzione di nuovi inceneritori o, come abitualmente vengono chiamati oggi con una di quelle ormai abituali e ipocrite operazioni di cosmesi linguistica, termovalorizzatori, è certamente giusto. Come lo è opporsi alle discariche. La legge 296/2006, relativamente alla raccolta differenziata poneva l’obiettivo di almeno il 40% entro il 2007; di almeno il 50% entro il 2009 e di almeno il 60% entro il 2011. Non siamo nemmeno alla metà. E alla faccia di tutto ciò, “costruiamo l’inceneritore” sembra essere l’unica soluzione che troppi politici e amministrazioni locali sono capaci di concepire come alternativa alla discarica, tanto da farsene spesso il classico fiore all’occhiello di modernità e spirito “illuminato”. Opporsi a cotanta ottusità non è soltanto giusto, è segno di elementare buon senso. Tuttavia, delle 32.522.650 tonnellate di rifiuti solidi urbani prodotti ogni anno dagli italiani, tolto quel 26%, pari a 8.455.889 tonnellate che confluisce nella raccolta differenziata, abbiamo un 54%, pari a 17.562.231 tonnellate che vanno nelle discariche e un 20%, pari a 6.504.530 tonnellate smaltite in un non meglio identificato “altro” modo. In questo “altro” sono compresi dunque gli inceneritori. È pertanto su meno del 20% del totale dei rifiuti solidi urbani che si concentrano le battaglie contro l’incenerimento dei rifiuti. Più rilevante la quota delle discariche, ma già di quelle si sente parlare molto meno, a parte certi picchi momentanei come il recente caso di Terzigno. Ma c’è di più: sommando le quote di rifiuti smaltiti in discarica o in “altro” modo otteniamo 24.066.764 tonnellate smaltite in maniera irresponsabile e dunque giustamente oggetto dell’indignazione ecologista. Ma 24 milioni di tonnellate non sono una cifra di molto maggiore dei 19 milioni prodotti sotto forma di deiezioni dagli allevamenti intensivi, sui quali al contrario l’attenzione è pressoché nulla; una quantità di deiezioni equivalente a quella che sarebbe prodotta da una popolazione umana aggiuntiva di oltre 160 milioni di persone e che è fra le principali cause di inquinamento su vasta scala di terreni e falde acquifere nonché dell’eutrofizzazione dei mari. Conclusione
È sicuramente non casuale che questi quattro argomenti, secondo il senso comune non collegati fra loro, convergano invece verso un unico bersaglio, la zootecnia, la quale rappresenta oggi una sorta di buco nero nel quadro della consapevolezza verso tutto ciò che è vivere sostenibile, anche nei settori sociali in cui questa forma di pensiero è più presente e nel movimento ambientalista in particolare. È singolare che questo vuoto permanga nonostante il tema dell’impatto ambientale della zootecnia sia stato negli ultimi anni ripetutamente portato all’attenzione internazionale da organizzazioni autorevoli e certamente non di parte, quali l’IPCC, il WWI, l’UNEP e la stessa FAO. Ed è proprio questa impermeabilità troppo spesso riscontrabile di fronte ai dati oggettivi e a tutto ciò che appartiene alla sfera della ragione, che giustifica il riferimento iniziale all’identità di gruppo: il no alla zootecnia non entra nel pensiero ecologista, nonostante i numeri dicano a gran voce che dovrebbe imperiosamente farlo, perché esso non fa parte delle parole d’ordine che ne definiscono l’identità di gruppo. Il che richiama alla mente le parole che molti decenni fa scrisse l’antropologa Ruth Benedict [2] a proposito della rigidità del costume sociale (che è poi un caso particolare di identità di gruppo): “Quanto più diventeremo consapevoli del peso del costume sul comportamento, tanto meglio riusciremo a discernere il piccolissimo nucleo che è proprio della situazione in sé dai tanti accessori locali aggiunti dalla singola cultura e dall’opera dell’uomo. Il fatto che tali accessori non siano conseguenze necessarie della situazione in sé non rende però più facile cambiarli, né diminuisce la loro importanza nel determinare il nostro comportamento. In realtà, cambiarli è probabilmente più difficile di quanto non si creda”.  Non rendersi conto dell’importanza di tali 'accessori culturali' e della natura contingente e irrazionale delle dinamiche di gruppo che concorrono a formarli, dinamiche in cui l’analisi critica ha un ruolo marginale se non inesistente, significa non cogliere i meccanismi evolutivi delle società umane e dunque mancare l’obiettivo di agire efficacemente su di essi. [1] S. Pignatti, P. L. Nimis, Biomi, in Ecologia vegetale, a cura di S. Pignatti, UTET, Torino, 2000, p. 326. [2] Ruth Benedict, Modelli di cultura, Feltrinelli, Milano, 1970.

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