di
Elisa Magrì
16-08-2012
Si può ripensare il comune come atteggiamento mentale, che informi l'intera nostra percezione del mondo? Secondo il giurista Ugo Mattei, autore di “Beni comuni. Un manifesto” non c'è altra via per comprendere il significato dei beni comuni e per iniziare a ripensarli in vista della loro istituzionalizzazione giuridica, che ancora manca in Italia.
Ogni cambio di paradigma ha il suo manifesto. Il libro scritto da Ugo Mattei nel 2011 per Laterza, “Beni comuni. Un manifesto”, è senz'altro un pamphlet di forte impatto per iniziare a ripensare le scienze sociali secondo un modello ecologico, sistemico ed olistico. Mattei, giurista e docente all'Università di Torino, fra i promotori del Forum nazionale del movimento dell'acqua pubblica, sostiene la necessità di interpretare i beni comuni come forme irriducibili “tanto alla logica del privato, quanto a quella del pubblico” e ne rivendica il significato di forma mentis, come specifico orientamento del singolo verso la realtà e l'ambiente che lo comprende.
Una corretta comprensione di tali beni non passa né attraverso le strette maglie dello statalismo e neppure per quelle, altrettanto ambigue, della cosiddetta green-economy. Proprio paventando il pericolo di certe derive l'autore intende avviare una riflessione sui commons in senso fenomenologico e sociale e non esclusivamente politologico. I beni comuni dischiudono una diversa apertura sul mondo perché presuppongono l'interrelazione dell'uomo con l'ambiente, consentendo l'organizzazione del reale in base alle reali necessità della comunità e di tutti i viventi.
Questo modello esclude radicalmente la polarità soggetto-oggetto, così come ogni approccio riduzionista di tipo economicistico e quantitativo. Tali paradigmi esprimono la 'logica dell'avere' che rifiuta di mettere in questione le condizioni di possibilità dell'agire dell'individuo nel mondo. Intendendo il bene comune esclusivamente come merce, le logiche dell'avere ignorano, o fanno finta di ignorare, i presupposti ontologici del loro operato, ovvero escludono completamente di considerare i beni nella cornice dell'ecosistema.
Al contrario Mattei recupera l'impianto filosofico fenomenologico, di tipo relazionale, qualitativo e sistemico, in base al quale il bene comune non è mai riducibile ad una porzione tangibile del mondo esterno. Piuttosto, scrive Mattei, “dal punto di vista fenomenologico i beni comuni non possono essere colti se non liberando la nostra mente dai più radicati fra gli schemi concettuali con cui siamo soliti interpretare la realtà. Per questo essi resistono a una concettualizzazione teorica scompagnata dalla prassi. I beni comuni divengono rilevanti in quanto tali soltanto se accompagnano la consapevolezza teorica della loro legittimità con una prassi di conflitto per il riconoscimento di certe relazioni qualitative che li coinvolgono”.
Questo significa che il discorso sui beni comuni non può prescindere dalle pratiche del loro riconoscimento, perché queste sono alla base del percorso storico evolutivo della codificazione giuridica del comune. Contro il diritto 'dogmatico', cieco verso gli avvenimenti in corso, concepito unicamente come applicazione “meccanica” di norme date a fatti, Mattei ricorda che il diritto “non esiste senza uomini o donne che la interpretino”. L'obiettivo è una nuova istituzionalizzazione di “un governo partecipato dei beni comuni, capace di restituirli in una prima fase alle 'comunità di utenti e di lavoratori' (art. 43 Cost.) e poi definitivamente alle moltitudini che ne hanno necessità”.
Si tratta di un cambio di paradigma non indifferente soprattutto perché, nella tradizione di pensiero e prassi che si è consolidata fino ad oggi, noi disponiamo ancora soltanto di parametri basanti su polarità esclusive, che sono sostanzialmente quelle del pubblico e del privato. Nei primi capitoli del suo saggio Mattei fornisce una sintetica ricostruzione storico-giuridica del processo che ha portato i beni comuni ad essere identificati come aree extra-territoriali del diritto e perciò destinati all'appropriazione da parte dello stato o dei privati. Muovendo dal Medievo e passando dalla costituzione secentesca dell'assolutismo statale fino all'Illuminismo, Mattei dimostra che in nessun caso i beni comuni sono stati concepiti in termini di libertà di accesso alla disponibilità delle risorse condivise.
Le semplificazioni storiche dell'autore, notate già dai recensori dell'Indice, probabilmente meriterebbero una discussione separata, ma non sono comunque tali da inficiare la sostanza del ragionamento condotto da Mattei. Questi si chiede, in fondo, se la metafora del comune come luogo del disordine, della guerra di tutti contro tutti, della brutalità e dell'assenza del diritto debbano ancora rappresentare la narrativa entro cui collocare il discorso sui comuni, o se non si possa invece tentare una nuova configurazione sociale e teorica del comune. In altri termini il punto non è rivendicare una gestione organicistica dei beni comuni, avallando magari logiche antiquate di statalismo o conservatorismo.
Al contrario in questione è lo scardinamento logico e filosofico delle dicotomie sulle quali è attualmente impostato il dibattito sui comuni, poiché solo da tale scardinamento dipende la possibilità di una ricostruzione positiva di nuove forme di gestione. Mattei parla, perciò, di riattivare l'intelligenza comune in funzione di un sapere autenticamente critico verso comportamenti e dinamiche che atrofizzano la consapevolezza del comune.
Un sapere critico, ma, al tempo stesso, organizzato e coerente, è quello che non cade nella logica dicotomica del pubblico vs privato, difendendo ora l'uno ora l'altro modello secondo parametri di dubbia utilità sociale. L'autore fa, in proposito, l'esempio delle università: tanto quelle pubbliche, quanto quelle private possono risultare scadenti se vengono meno alla loro funzione, che è di garantire la formazione e l'istruzione senza lasciarsi governare da apparati burocratici o dai finanziatori. Questo perché 'il comune' in quanto tale non si basa sulle idee della gerarchia o della competizione, ma sui concetti di partecipazione ed interesse comune.
Pertanto il paradigma del comune investe l'intera forma del vivere e della percezione: comune è il lavoro, che dovrebbe essere riconosciuto a misura d'uomo e regolato da condizioni dignitose e costituzionali; comune è l'acqua, che non possediamo, ma da cui dipendiamo per la sopravvivenza; comune è la politica dei movimenti, che diffonde l'attivismo senza ingabbiarlo nelle logiche delle segreterie di partito. In tutti i casi il focus del ragionamento verte sul fine, il quale è valido solo finché non è scorporato dalle pratiche e dai mezzi che lo attualizzano.
Alla luce di ciò si può dire che il saggio di Mattei non è affatto un pamphlet retorico e conservatore, come pure alcuni recensori hanno scritto, evitando così di raccogliere l'invito dell'autore ad un ripensamento filosofico globale dell'attuale paradigma sociale, economico e politico. Mi sembra, inoltre, evidente che l'enfasi dell'autore sulle dinamiche realizzate da movimenti, come quello del forum dell'acqua pubblica, non sia una retorica insurrezionale o 'alla Grillo'.
Quello che Mattei rileva, a proposito della campagna per l'acqua, è l'imponente 'sforzo culturale' di critica collettiva del significato della privatizzazione come tentativo di risolvere il problema della gestione di un interesse comune nei soli termini di efficienza e profitto. Ma l'autore mette poi in guardia dall'estensione acritica del paradigma del comune a qualunque tipo di risorsa, senza verificarne le reali possibilità d'uso, di diffusione e gestione, come nel caso del web, in larga parte governato da logiche commerciali e, soprattutto, alieno dalla fisicità dei rapporti pratici che sono alla base del vero sapere.
Bisognerebbe allora leggere questo saggio per quello che è: un invito alla riflessione ed alla discussione dei beni comuni, sulle distinzioni che dovrebbero caratterizzarli, sulle criticità che li contraddistinguono e soprattutto sugli scenari che potrebbero ridisegnarsi.