Ho due storie da raccontarvi.
La prima si svolge in Ontario, Canada, quindi oltreoceano, molto ma molto lontano da noi(1). E
naturalmente non parla di noi e ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è del tutto
casuale. Parla infatti di conflitti di interesse (CdI) in medicina. Quindi niente che ci riguardi da vicino (qui ci vorrebbe la faccina con gli occhi rivolti verso l’alto).
Ora, sgombrato il campo da possibili equivoci, incomincio. È una storia di due amici, anzi no, perlomeno non da subito. All’inizio, nel 1999, è la storia di uno studente di medicina, CM Booth (CMB), ora professore di oncologia, e del suo mentore, già allora un clinico esperto nonché ricercatore, AS Detsky (ASD), professore di politiche sanitarie. CMB, al terzo anno di medicina, frequenta un corso elettivo condotto da ASD. Da allora continueranno a frequentarsi e diventeranno amici. Nel corso del tempo le loro conversazioni si dirigeranno spesso sui CdI e in particolare su quale sia la risposta più appropriata rispetto a quelle opportunità professionali che si presentano nel corso della carriera, potenzialmente in grado di creare CdI. Per esempio quando si accetta un regalo, un pagamento, un impiego o un sostegno finanziario alla propria ricerca dall’industria farmaceutica. Specialmente quando si è a inizio carriera, quindi in una posizione particolarmente delicata (vedi l’istruttiva storia 2 che segue).
I loro comportamenti e le loro opinioni evolveranno nel tempo. Negli anni ’80-’90 ASD collabora con l’industria come consulente, come relatore a simposi e nei comitati consultivi dell’industria; questa collaborazione è soddisfacente sia dal punto di vista intellettuale che economico, i CdI sembrano gestibili senza problemi. Ma verso la fine degli anni ’90 ASD lavora a un programma di ricerca che conduce a uno dei primi report riguardo a come l’industria sia in grado di influenzare l’interpretazione delle evidenze scientifiche e le linee-guida. Da allora non ha più avuto relazioni con l’industria. Anzi ora è in grado di vedere l’influenza dell’industria in quasi tutti i domini della cura del paziente: dall’educazione della classe medica, alla ricerca clinica e perfino alle certificazioni per gli esami, dove la risposta corretta si basa su linee guida redatte con il finanziamento dell’industria.
Nei primi anni 2000 CMB si gode allegramente pizzette, sandwich, patatine, olivette e cetriolini (tra parentesi a me non piacciono) tracannando Coca-Cola ai seminari serali, senza porsi il minimo problema su chi paghi per tutto quel ben di Dio. La fame, si sa, specie quando si è giovani, ha sempre la meglio. Frequenta anche i Journal Club di Dipartimento nei ristoranti più esclusivi della città. Non può credere che esista un Hamburger da 80 dollari!!! Tanto mica paga lui! Verso la fine dei suoi anni di formazione i primi dubbi. CMB comincia a sentirsi un po’ meno a suo agio con alcune interazioni con l’industria farmaceutica. Per esempio, ricevere in regalo un costoso testo di oncologia. Utile, ma …cosa c’è sotto? Peraltro si dice che quando una cosa è gratis, allora la merce sei tu. Rumble rumble (il rumore di CMB che riflette meglio sui CdI). Ma sono soprattutto le conversazioni con il suo mentore ASD a convincerlo che non avere alcun tipo di interazione con l’industria farmaceutica sia la scelta giusta.
Fatti
1) L’industria coltiva (e coccola) i suoi opinion leaders per promuovere i propri prodotti in vari contesti. Molte riunioni dei comitati consultivi servono proprio a questo. Questo genere di interazioni è orientato essenzialmente a costruire relazioni personali e a guadagnare la benevolenza dei cosiddetti thought leaders che a loro volta influenzeranno il comportamento dei medici che leggeranno i loro editoriali, si baseranno sulle loro linee guida e li ascolteranno parlare ai convegni.
2) Il ruolo di molti ricercatori nei trial clinici si limita all’arruolamento dei pazienti (compito peraltro degnissimo, ma tutto sommato modesto, aggiungo io), oppure all’apposizione della propria firma di prestigio a pubblicazioni confezionate da altri (pratica un po’ più dubbia).
3) Gli editorialisti con CdI promuovono più facilmente farmaci e device di incerto beneficio clinico.
4) Molti membri degli Enti Regolatori per l’approvazione di farmaci e device hanno legami finanziari con l’industria e questo influenza le loro decisioni. Tanto che poi alcuni di loro cambiano proprio carriera e finiscono per lavorare direttamente per l’industria (ma guarda un po’).
Lo specializzando ha già tante cose a cui pensare. Molti specializzandi non sentono il problema, proprio non lo percepiscono, non se ne accorgono. E come mai potrebbero? Sono talmente abituati a vedere i loro professori e maestri intrattenere relazioni con l’industria che tutto sembra loro normale, desiderabile, anzi lo interpretano come segno di prestigio. Partecipare ai comitati consultivi dell’industria, alla stesura di linee guida finanziate dall’industria, imbarcarsi in tournée in varie località amene per partecipare a convegni, ricevere fondi dall’industria per le proprie ricerche.
Tutto normale. Tanto che alla fine addirittura si aspettano, come se fosse dovuto, che venga loro pagato il viaggio per il meeting annuale della propria specialità, ovunque si svolga. Questa cosa mi ha ricordato una storiella raccontata in un seminario da David Foster Wallace. Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?” I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “Ma cosa diavolo è l’acqua?” Ecco, il pesce anziano è per esempio il nostro ASD, che in questo caso torna indietro e si ferma a parlare con i giovani pesci cercando di convincerli a distinguersi, anzi proprio a caratterizzarsi per non avere CdI. ‘Brandizzarsi’ come privi di CdI. Fare della mancanza di CdI un brand (porca loca). Purtroppo però le spinte verso l’industria sono troppo forti, specie quando si è a inizio carriera. E solo pochi sono disposti ad accettare questo consiglio.
Come rinunciare ai pranzi, pagati dall’industria con senior faculty, o rinunciare a unirsi ai comitati consultivi, tutto spesato, viaggio compreso in una bella località, e tante altre occasioni di incontro con personalità del proprio campo? Relazioni pubbliche, marketing personale, frequentare le persone giuste nei posti giusti. Chi è così forte e così fesso (secondo il comune sentire) da rinunciarvi perdendo occasioni di carriera? Ma tutto questo, occorre ricordarlo, ha un costo. Tutte le ricerche sono concordi nel dimostrare che perfino relazioni minime con l’industria hanno le loro conseguenze e producono bias. Molti Kol (Key Opinion Leader), e ancor più chi li ascolta, non si rendono conto di essere parte di un sforzo sofisticato e coordinato da parte dell’industria per influenzare i punti di vista e condizionare la pratica di altri medici. Gli sforzi delle case farmaceutiche sono deliberati, determinati ed efficaci: loro pagano le persone di cui vogliono influenzare le opinioni, che a loro volta influenzeranno le opinioni di molti altri, secondo una logica
Hub e Spoke
Hub and Spoke. Sistema di gestione e sviluppo delle reti nel quale le connessioni si realizzano, usando per analogia un’espressione riferita alla ruota della bicicletta, dallo spoke (raggio) verso l’hub (perno) e viceversa. Per esempio, una compagnia aerea concentra i voli presso uno scalo che funge da hub. L’uso di un modello hub and spoke porta a concentrare i collegamenti su un aeroporto hub, consentendo un incremento dei voli tra due aeroporti spoke che, invece di essere connessi in modo diretto, sono collegati attraverso l’aeroporto hub. Nel nostro caso gli ‘sforzi’ delle case farmaceutiche si concentrano sui Kol in modo da poter influenzare tanti spoke che siamo noi, i medici ‘normali’.
Interazioni con l'industria
I medici a inizio carriera devono decidere in che modo interagire con l’industria. Non c’è dubbio, dicono gli autori, che in alcuni campi questa interazione è necessaria e fondamentale. Per esempio, il governo canadese non finanzia borse di studio per trial clinici su nuovi farmaci. Pertanto i giovani clinici devono avere gli strumenti per sapere come interagire al meglio per evitare bias e limitazioni, per esempio devono mantenere la ‘proprietà’ del manoscritto, devono accertarsi che sia assicurato l’accesso completo a tutti i dati dello studio, impedire lo ‘spin’ dei risultati e che i risultati siano presentati solo in funzione di puro marketing del farmaco testato. In tutti i casi in cui non è possibile non interagire, i rapporti economici con l’industria devono essere chiari e trasparenti. Vanno invece del tutto evitati i rapporti non necessari con l’industria: pranzi sponsorizzati, comitati consultivi o speakers bureau, simposi satellite ai congressi (solo marketing) e, cosa molto importante, va evitata l’EBM sponsorizzata dall’industria.
Profezie che non si sono avverate
Quando si conobbero, 20 anni fa, ASD disse a CMB: “un giorno il mondo si sveglierà e capirà questo problema. Quando ciò accadrà, i veri thought leaders saranno coloro che non hanno relazioni con l’industria. Ricordati queste mie parole quando inizierai la tua carriera professionale, quindi cerca di stare tra le rare persone nella tua specialità che non hanno CdI. Le persone come te saranno chiamate a condurre trial, scrivere linee guida, editoriali e a esprimere opinioni“. Possiamo tranquillamente dire che in Canada come altrove non è andata esattamente così. Ogni volta che a CMB si presentava un’offerta da parte dell’industria, ASD lo invitava a porsi queste domande: cosa ti motiva ad accettare quest’offerta? è davvero centrale per la tua mission? ti darà la possibilità di raggiungere qualche risultato veramente importante per te e per i tuoi pazienti? La risposta era sempre no e la proposta era rifiutata. Bisogna che anche e soprattutto le nuove generazioni sappiano porsi le domande giuste e sappiano rifiutare tutte le interazioni non necessarie con l’industria e sappiano pertanto accettare solo le interazioni che possono avere un valore aggiunto per la ricerca e per i loro pazienti. Avendo peraltro ben in mente che la cosa migliore in assoluto è non avere CdI.
Prima o poi questo comportamento sarà ricompensato quando nascerà, come il superuomo Nietzschiano, un nuovo tipo di Kol, quello privo di CdI.
Note alla storia 1
Gli autori ci tengono a segnalare che non vogliono demonizzare nessuno e nemmeno vogliono dire che chi ha interazioni con l’industria è brutto sporco e cattivo e non in grado di produrre ricerche di valore scientifico, ma si sentono di consigliare fortemente, soprattutto ai giovani, un approccio senza CdI.
Storia 2
Ma veniamo alla seconda storia (in qualche modo collegata alla prima, ma anche, per vostra fortuna, molto più breve)(2). Fiona Gillison, capo Dipartimento all’Università di Bath (UK), impegnata nel campo dell’obesità e della nutrizione, ci racconta come proprio una scelta fatta a inizio carriera, quando non si è pienamente consapevoli di tutte le possibili implicazioni, possa diventare ingombrante per il futuro della propria carriera professionale. Quando era una giovane ricercatrice, fu invitata da un suo collega senior a partecipare a un importante studio internazionale sui determinanti dell’obesità infantile. Peccato che lo studio fosse finanziato dalla Coca-Cola. La scelta di partecipare sembrava del tutto naturale. Tutti intorno facevano così (il valore degli esempi) e la scelta era perfino incoraggiata dall’Università. Peraltro la Gillison conserva un buon ricordo di quell’esperienza, con l’impressione di essere stata del tutto indipendente e che la ricerca fosse condotta e pubblicata con la stessa qualità di tutte le altre ricerche, né più né meno. La Gillison sapeva che c’erano ricercatori nello stesso campo che rifiutavano qualsiasi finanziamento da parte dell’industria, ma non era preparata a essere giudicata con severità per quel trascorso, diventato poi quasi uno stigma. Aver partecipato da giovane a quella ricerca è stato considerato da alcuni come un bias inaccettabile, anche per tutte le ricerche future. Addirittura, secondo alcuni, non sarebbe stata più adatta a occuparsi di ricerca nel campo dell’obesità, in questo modo mettendo a rischio non solo la sua carriera ma anche quella degli studenti che collaboravano con lei. Queste osservazioni sulla sua integrità accademica e perfino sulla sua conseguente idoneità a svolgere il proprio lavoro di ricercatrice hanno rischiato di mettere fine alla sua carriera. Un vero trauma, si intuisce dal
racconto.
Insegnamenti
Sulla scorta di questa triste esperienza personale, la Gillison si augura che possa esserci un dibattito più aperto, meno divisivo sul tema dei CdI, e che le diverse opinioni possano essere ascoltate e discusse senza isterismi. Inoltre, ritiene fondamentale che gli accademici più anziani e tutta l’istituzione universitaria si prendano la responsabilità di informare adeguatamente i giovani ricercatori su tutte le possibili implicazioni dell’accettare finanziamenti, in modo che in futuro non si possano trovare in imbarazzo o addirittura possano mettere a rischio la propria carriera. Di sicuro lei farà così. Anche se, in assenza di regole chiare e di un consenso unanime sul tema, è comunque difficile poter consigliare nel modo giusto. Tuttavia dice: lavorare con il finanziamento dell’industria comporta un certo rischio per la propria reputazione, ma ci sono esempi di ricerche di valore e innovative finanziate dall’industria alimentare che non sarebbero altrimenti mai state condotte e, d’altra parte, ci sono ricerche di bassa qualità condotte con fondi pubblici. E conclude: bisogna giudicare l’integrità dei ricercatori sulla base dei loro comportamenti e non dei loro finanziamenti (bello slogan ma…).
Non sono quasi mai intervenuto in questa seconda storia; citerò solo un breve e recente articolo (che vi invito a leggere per intero) di Luca De Fiore dal titolo: “Opaca come la Coca Cola”(3). Scrive De Fiore: l’influenza della Coca-Cola sulle università è nota da tempo ed è regolarmente accompagnata da un’attività di pubbliche relazioni nei confronti dei media, utili per convincere il pubblico che il determinante dell’obesità e del sovrappeso è la mancanza di esercizio e non il consumo di dolci o di bevande zuccherate. Insomma, giudicate voi.
1. Booth CM, Detsky AS. From the $80 hamburger to managing conflicts of interest with the pharmaceutical industry. BMJ 2019;365:l1939
2.Gillison F. Reflections from a casualty of the food industry research funding debate. BMJ 2019;365:l2034
3. http://dottprof.com/2019/05/opaca-come-la-coca-cola/