di
Romina Arena
21-06-2011
La ricostruzione di Haiti è praticamente ferma. Di tutto quello che si era prospettato nei progetti di urbanistica, nel concreto non si vede nulla. Quando la commozione e il momento di solidarietà mediatica si volgono dall’altra parte, i diseredati diventano solo un peso morto e lo spazio rimasto vuoto un favoloso posto su cui lucrare. A loro discapito.
Molti si erano illusi che dopo il terremoto Haiti si sarebbe presto ripresa. Se non altro ad accrescere l’ottimismo era stata la valanga di aiuti, spedizioni umanitarie, volontari e soldi. Tanti soldi. Pareva. Già da subito, la confusione che regnava intorno alle macerie di Port au Prince, il secondo terremoto, questa volta mediatico, deflagrato con l’arrivo di mercantili e soldati che avrebbero (questo era lo spot) ricostruito il paese più povero del mondo, metteva alcuni osservatori sull’attenti.
Le campagne di sensibilizzazione con il famoso messaggino da mandare a tale numero (unico per tutti gli operatori), star miliardarie dal cuore tenero che senza indugio strappavano assegni a molti zeri (un ottimo tornaconto in termini di immagine), cantanti dall’ugola sensibile stipati in uno studio di registrazione per incidere l’ennesima canzone tributo i cui proventi sarebbero stati devoluti alla causa, tutti indistintamente impegnati ad animare il baraccone della beneficenza, ad alimentare questa cosa amorfa che chiamano solidarietà.
Che cosa resta oggi di tutto questo carrozzone a parte qualche precaria tenda blu elettrico, una crisi epidemica di colera e un baratro politico che ha permesso il ritorno in patria (in periodo elettorale, che tempismo!) di baby Doc Duvalier?
Una baraccopoli chiamata “Campo di Marte”, grottescamente situata vicino ai palazzi ministeriali, nella quale vivono 6.000 sfollati urbani ai quali è garantito l’approvvigionamento dell’acqua potabile e l’installazione di 172 sanitari (uno ogni 174 persone).
Una ricerca durata due mesi di Haiti Grassroots Watch assieme agli studenti di giornalismo dell’Università di Stato di Haiti ha messo in evidenza come la lentezza drammatica nella ricostruzione sia dovuta alla mancanza di coordinazione, a rivalità interne e disaccordi aperti. La ricostruzione, a questo punto, sveste finalmente gli stretti panni della filantropia per ficcarsi in quelli più comodi della manovra squisitamente economica.
Pochi mesi dopo il terremoto le autorità stavano elaborando un piano di ricollocazione di tutti gli sfollati del Campo di Marte. Lo stesso Presidente René Préval conduceva riunioni con le autorità nazionali e internazionali relativamente a questo piano. All’inizio si parlava di piccoli passi in avanti e di un programma pilota che prevedeva la costruzione di nuove abitazioni antisismiche.
Dal 2010 però il programma pilota si è arenato, all’apparenza perché il Governo ha deciso di sostituirlo con un progetto più ampio di abitazioni sociali a Fort National. Il Ministero dell’Economia e della Finanza assicura che il progetto sta procedendo, ma pare che ancora non sia stata fatta alcuna tappa esecutiva anche perché il progetto non dispone delle dovute autorizzazioni ed è economicamente insostenibile per le dissanguate casse del paese.
Il panorama che si delinea è agghiacciante perché anche nella miseria più nera esistono poveri di serie A e poveri di serie B. A Port au Prince ci sono ben 18 associazioni umanitarie che si stanno impegnando nella costruzione di abitazioni transitorie di plastica o legno, mentre a Campo di Marte è tutto fermo. Intanto decine di milioni di dollari sono stati mandati in fumo solo per convocare conferenze stampa e riunioni per dare all’esterno l’impressione che ad Haiti si stesse lavorando, ma tutto quello di cui si dispone, attualmente, è un cumulo pressoché inutile di files in pdf, presentazioni in PowerPoint, carte e progetti nessuno dei quali ha le prospettive di essere applicato nel breve periodo.
Come se non bastasse, il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Baudin, ha annunciato l’arrivo della Prince’s Foundation for the Built Environment, la fondazione che fa capo al principe Carlo d’Inghilterra, affinché si occupasse di un piano di recupero nella zona centrale spacciandolo come l’affare del secolo. La Fondazione sarebbe stata scelta perché non persegue scopi di lucro e perché il programma che nella fattispecie avrebbe avuto un costo pari ad un milione di dollari, Haiti lo avrebbe pagato soltanto 295.000$.
La vera notizia dell’affare del secolo però è che qualche mese fa il sindaco di Port au Prince, Muscadin Jean-Yves Jason, ha rotto ogni relazione con la fondazione per una ragione molto semplice: vuole che la città sia concepita a misura di haitiano e quindi ha dichiarato di voler dare mandato ad un’impresa nazionale per la costruzione di un piano ad hoc.
Tutta un’altra strada sta prendendo invece il Ministero della Pianificazione e della Cooperazione che ha messo un progetto di pianificazione urbana in mano all’impresa canadese Daniel Arbour and Associates (DDA) che, come la Fondazione del Principe, è pagata con i soldi del governo haitiano. In entrambi i casi, la Fondazione e la DDA sarebbero state selezionate senza ricorrere ad una selezione pubblica.
Molta confusione e lotte intestine tra i funzionari istituzionali creano un pesante clima di incertezza. La totale paralisi e lo stallo dei progetti di ricostruzione dimostrano una volta di più che a pagare le conseguenze dei lucri economici anche (e soprattutto) sulle disgrazie sono sempre i poveri ed i diseredati.