di
Andrea Schirosi
08-02-2012
I vantaggi di una maggiore riduzione delle emissioni nel vecchio continente sono più convenienti di quanto si possa pensare. Lo rivela una ricerca pubblicata dalla Commissione Europea la settimana scorsa.
Il primo febbraio, con scarsa visibilità mediatica, la Commissione Europea, Direzione Generale “Azioni per il clima”, ha reso pubblica una ricerca interna sugli effetti economici che avrebbe un’azione politica maggiormente efficace riguardo la riduzione delle emissioni.
Le conclusioni sembrano chiare: l’Europa sarebbe in grado di raggiungere un obiettivo di riduzione delle emissioni più ambizioso (30%) per il 2020. La ricerca, inoltre, sottolinea come tale maggiore riduzione porterebbe enormi benefici in termini finanziari, ambientali e di salute per tutta l’Europa. In sostanza, i benefici supererebbero di gran lunga i costi aggiuntivi.
Va precisato come, in virtù del consistente calo della produzione industriale, conseguenza diretta della crisi economica, le emissioni risultano già abbattute del 17% rispetto al 1990, ad un passo quindi dall’obiettivo fissato attualmente al 20%. Se si prendono in considerazione i miglioramenti in efficienza energetica previsti per il 2020, senza ulteriori costi aggiuntivi si potrebbe arrivare ad una riduzione delle emissioni inquinanti superiore al 25%.
Alzare l’asticella fino al traguardo del 30%, invece, avrebbe oggi un costo aggiuntivo inferiore ai 33 miliardi di euro stimati l’anno scorso in uno studio analogo e metterebbe l’Europa nella condizione di poter raggiungere, nel 2050, una riduzione delle emissioni inquinanti dell’80-95%.
La Commissione propone una serie di opzioni per conseguire tali riduzioni: rimuovere l'eccesso di crediti di emissioni inquinanti dall’Emission Trading System, aumentare l'obiettivo per le emissioni non industriali ed attingere risorse dal bilancio dell'UE.
In particolare, per quanto riguarda l’Europa centrale ed orientale, viene osservato come si potrebbero rendere disponibili i 38 miliardi di euro annui previsti per i Fondi strutturali e di coesione. Per le regioni in questione, infatti, concentrarsi su tale settore porterebbe benefici immediati quali investimenti infrastrutturali maggiori, ristrutturazioni edilizie, riduzione dell'inquinamento atmosferico e conseguentemente dei tassi di mortalità.
Senza entrare nei dettagli contabili, ad ogni modo, lo studio sembra affermare che un’azione maggiormente determinata garantirebbe all’Europa intera forti guadagni economici non solo indirettamente, attraverso i benefici in termini di salute ed ambiente, ma anche direttamente, attraverso la creazione di nuove forme di impiego e la riduzione della bolletta energetica.
Eppure, mentre la Commissione Europea conferma ciò che illustri economisti ed associazioni ambientaliste predicano da anni, ci sono governi nazionali che guardano in un’altra direzione. È il caso della Spagna, ad esempio, dove “a causa della complessa situazione finanziaria” sono stati temporaneamente sospesi tutti gli incentivi economici mirati alla costruzione di nuovi impianti. Il responsabile Energia di Greenpeace Spagna, José Luis Garcia, afferma che “il Real decreto rischia di determinare uno stop ingiustificato allo sviluppo delle energie rinnovabili, fattore in grado di creare posti di lavoro e sviluppo economico per la Spagna, mentre si continua a sostenere finanziariamente carbone ed energia nucleare”.
Ci sono, inoltre, altri buoni motivi per essere prudenti rispetto all’ottimismo a cui potrebbe condurre una lettura superficiale dell’analisi condotta dalla Commissione Europea. La base da cui parte la ricerca, infatti, è la riduzione di emissioni inquinanti conseguita in Europa negli ultimi anni, e che sembrerebbe già prossima a quel 20% fissato per il 2020. L’andamento dell’intensità energetica ci permette però di affermare che, molto probabilmente, la contrazione di emissioni avuta negli ultimi anni sia dovuta maggiormente alla crisi economica che non a politiche ambientali adeguate.
Una conferma di quanto affermato si può trovare nella scomposizione delle emissioni per settore, dalla quale si evince che prima che si cominciassero a sentire gli effetti della crisi economica, fino al 2007, seppure con andamenti altalenanti, le emissioni dovute all’industria energetica sono notevolmente aumentate (vedi grafico Immagine 3).
Tale fenomeno può essere imputabile a tre fattori relazionati tra loro: l’aumento generale della produzione, il mutamento della struttura economica con un peso maggiore delle attività a maggiore intensità energetica, lo scarso impatto delle politiche ambientali (efficientamento, sviluppo di tecnologie a basso impatto) sulla produzione energetica. È probabile quindi che, quando il PIL tornerà a crescere, anche le emissioni inquinanti aumenteranno.
Si può pertanto affermare che il cambio di rotta auspicato, e non più rinviabile, dovrà necessariamente essere un processo a tutto tondo che comprenda non solo un’ampia estensione dell’utilizzo di tecnologie pulite ed un elevato efficientamento dei processi (come prevedono le politiche europee), in quanto tali imprescindibili misure saranno destinate ad avere un impatto limitato se non verranno associate ad una razionalizzazione della produzione e dei consumi, con un conseguente ripensamento dell’economia in generale. La svolta verso un modello che sia rispettoso dell’ambiente non può che passare, quindi, per profondi cambiamenti tecnologici, culturali, sociali ed economici.