È uscito da qualche anno un libro interesssante di Sonia Savioli che è passato inosservato, ma che cela grandi potenzialità interpretative della situazione attuale (Sonia Savioli, Scemi di guerra. Ascesa, apoteosi, marasma e fine della società di guerra e progresso, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2010).
Con questo libro, Sonia ci regala il suo pensiero sul falso mito del progresso e sulla guerra perenne dell’uomo contro l’uomo e contro la natura. Il progredire senza avere una meta e la società della guerra camminano insieme, stretti in una spirale distruttiva. L’autrice indaga su tutti gli aspetti del vivere moderno, e ne ricava che il concetto di progresso è relativo, dipende dalla direzione nella quale si va: progredire può anche voler dire saper tornare indietro. Se non siamo più capaci di recuperare ciò che valeva del nostro passato, proiettandoci verso un futuro senza radici, allora non abbiamo speranze.
In modo semplice ed esemplare, Sonia ci ricorda che “niente della nostra vita collettiva, niente della nostra storia è passato”. Siamo immersi e attraversati da quello che prima di noi è stato il vissuto, fino alle origini, e il ricordo consapevole di quello che la Terra ha rappresentato può rianimare il nostro incerto futuro: bisogna mettersi in rispettoso ascolto.
Questo filo rosso tra passato e presente è intrecciato con ricchi spunti biografici, comuni e cari a molti di noi, di una bambina felice che ha conosciuto la campagna negli anni di un’infanzia ricca di cortili, di aie e di giochi fantasiosi.
Anni profumati di erbe e stimolati da mille sapori perché vissuti a contatto con la natura, vicino alla Madre Terra, con i riti e gli insegnamenti che ancora oggi scandiscono la vita attuale e i legami sociali di Sonia. Lei è molto rispettosa di qualsiasi forma di vita, non schiaccia mai gli insetti che noi abitualmente sterminiamo a vista; ancora si ricorda di quando da bambina aveva calpestato delle formiche e di come si era sentita disgustata della sua cattiveria per aver seguito le sue cuginette in un gesto che inizialmente detestava, e cercava di contrastare, ma che alla fine l’aveva fatta sentire solidale con i carnefici, allontanandola dalla sua vera natura.
Il suo racconto sullo stato dell’essere umano e del pianeta è dettagliato e documentato senza trascurare alcun aspetto; non è catastrofico, ma drammaticamente reale, semplicemente vero e scientifico. Non ne siamo sempre consapevoli, perché Sonia sostiene, a ragione, che siamo tutti un po’ “scemi di guerra” resi tali da seimila anni di civiltà fondate sulla guerra e sulla competizione.
Competizione che l’autrice trova un fatto culturale innaturale, legato a un certo tipo di “civiltà” che produce aggressività e predominio degli uni sugli altri. La nostra non è una competizione per migliorare la specie, come avviene in natura per gli animali, “è una competizione contro il resto della specie”. È contro la natura, come se noi non ne facessimo parte. È portatrice di morte e ingenera ansia e paura. È qui che perdiamo l’orientamento e diventiamo vulnerabili.
“Durante la guerra le sofferenze, la paura, l’ansia, il terrore dei bombardamenti, il dolore per i morti, l’orrore dell’uccidere o venire uccisi, avevano sconvolto la mente di molte persone. E una parte di esse non era più tornata alla ragione”. Scemi di guerra. Questa è stata la risposta che Sonia bambina ha avuto alla sua domanda su chi fossero questi scemi di cui sentiva parlare.
Crescendo ha capito meglio che ormai abbiamo passato il segno: il fallimento politico dello sviluppo è un’evidenza della quale non vogliamo renderci conto, ma ai più sembra che a essere fuori dalla realtà sia il non volere il progresso continuo. A quanti di noi è capitato di sentirsi chiedere, di fronte al “No al nucleare” a quali elettrodomestici avremmo scelto di rinunciare?
L’autrice lancia la speranza di un possibile futuro, che non si sa neppure se ci sarà, ma che sarà determinato dalla capacità di passare da un disgusto individuale per lo scempio che stanno subendo l’umanità e la natura, a una capacità collettiva di riconquistare tutto quello che abbiamo perso, e di sentirci felicemente parte di quella stessa natura che violentiamo quotidianamente.
Sarebbe naturale, per ogni essere vivente, abbracciare le anime della natura e degli animali con quell'armonia che deriva dal rispetto per la vita, senza una gerarchia tra il bello e il brutto. Armonia che l’autrice so che estende anche alle erbe selvatiche, accolte e accettate nei suoi orti. Il suo sguardo, attento ai cambiamenti climatici e a come si manifesta la natura, rimanda a un sapere antico, ma proprio per questo potrebbe rappresentare l’unica via per il futuro della specie. Per riattivare l’istinto andato perduto.
Sonia sostiene che siamo la specie peggiore che abita il pianeta: l’uomo, con la sua crudeltà e miopia, è la nota stonata nell’equilibrio naturale. Eppure ci crediamo la società migliore mai esistita nei secoli, abbiamo bisogno di crederci, ce lo insegnano a scuola. Abbiamo l'esigenza di creare dei bisogni indotti da soddisfare e ai quali sacrificare anche le vite dei nostri simili, specialmente se in continenti lontani. Ci siamo salvati dalla fame solo perché lo sfruttamento si è insediato in altri continenti, ma la violenza dell’uomo, alla ricerca di altro da sé da violentare, si rivolge ai bambini, alle donne, a quella natura di cui non crediamo di far parte. “Tutto ciò fa di noi degli alienati, inadatti alla vita”.
Le nostre menti, ci insegna l’autrice, ormai sono colonizzate dai luoghi comuni.
Luoghi comuni sulle guerre di conquista e sulle contingenti necessità, quando crediamo che con esse i popoli si mischino, mentre con la violenza dei dominatori sui dominati e con il loro predominio culturale non si creano comunità, ma confini di stati costruiti dai vincitori con una storia scritta da loro, luoghi dove alle donne è dato entrare a competere negli ambiti del maschile, senza che il femminile possa contare per il suo valore. Luoghi comuni sul poter andare sempre avanti in tecnologie e grandi opere perché il progresso ne ha bisogno.
L’autrice ci richiama all’esercizio della cittadinanza, che sta alla base di ogni presa di coscienza, ci porta a praticare e riconoscere come importanti quei comportamenti virtuosi e individuali, piccoli e quotidiani, che ci salvano dal renderci complici di una crudeltà indifferente.
Avere memoria delle cose che avevamo, di una felicità semplice e naturale, dei saperi e dei sapori, degli odori, saper tornare indietro: ecco una via da praticare nella quotidianità per diventare tutti insieme un progetto che può salvarci la vita. Dedicare rispetto alla sacralità del cibo, del cucinare, apprezzare la poesia che la preparazione dei cibi naturali racchiude e che rappresenta anche una presa di coscienza del legame perverso che si è creato tra l’alimentazione e la sanità: “guarire il popolo anche quando è sano, facendolo ammalare il più a lungo possibile”. Mangiare il pane bianco, che oggi sappiamo essere privato delle sostanze nutritive più preziose, ci racconta Sonia, era un bisogno indotto dalla cultura della competizione e i contadini, che mangiavano il pane nero, erano considerati inferiori ai ricchi che si potevano permettere il pane raffinato. Il progresso - ed è una metafora della vita - ci riporta al pane integrale, che per essere buono deve essere biologico e deve costare più del pane bianco. È una legge di mercato.
L’autrice ci interroga su quale prezzo siamo disponibili a pagare in perdita di “vantaggi” acquisiti per attivare in noi degli anticorpi capaci di farci ripartire e di progredire verso “un socialismo che nasca dal formarsi e organizzarsi e strutturarsi dal basso di una nuova società, un socialismo che non voglia elevare l’uomo a dominatore della natura e della materia, un socialismo nuovo ancorato alla terra e alla vita naturale”.
Se lo crediamo impossibile, se pensiamo che sia un mito irraggiungibile o un nome che evoca scenari politici e non sociali e naturali, se crediamo che solo il progresso ci salverà, siamo proprio ancora “scemi di guerra”.
In uno scenario apocalittico, l’autrice spende una nota di ottimismo, crede nel libero arbitrio e conclude: “tutto dipende dalla nostra voglia e capacità di piantare alberi contro il deserto che avanza”.
Una lettura che ha restituito valore e speranza ai gesti solitari, a volte faticosi quando non diventano collettivi e visibili, a difesa dei beni comuni e dei diritti, ma sempre vitali per continuare a sentire, sotto i piedi nudi, una base sicura che profuma di erba.