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03-12-2012
Cosa vuol dire scollocarsi? Chi e perché decide di intraprendere questo percorso? In attesa dell'incontro di orientamento che si terrà a Parma il prossimo fine settimana, pubblichiamo la testimonianza di Andrea sul significato dello scollocamento.
Iniziare un articolo sullo scollocamento mentre la disoccupazione giovanile tocca in Italia quota 36,5% (dato Istat di Ottobre) farebbe quasi venir voglia di chiudere Word e andare a fare due passi. Ma poiché in molti mi chiedono se in casa mia le porte abbiano le maniglie, o come mai io indossi scarpe senza lacci o anche dove io trovi quelle buffe camicie con tutte quelle strane fibie pendenti, proverò ugualmente a dirvi due cose su che cosa lo scollocamento significhi per una persona che, avendo testimoniato ad alcuni incontri di formazione, forse proprio matta non è, ma si è anzi fatta alcune idee in merito.
Chi vi sta scrivendo è un ragazzino di quarant’anni che, grazie a un “buon orecchio per le dinamiche sociali ed economiche”, quasi dieci anni fa (cioè ben prima del deflagrare della crisi), intuendo che qualcosa in questa società non stesse andando, ha intrapreso scelte abbastanza inusuali e radicali, sulle quali non vi annoio qui, ma per le quali vi rimanderei al mio sito di approfondimento, ideato e realizzato quest’estate proprio grazie all’energia, 'captata' durante un incontro sullo scollocamento, e successivamente canalizzata nella giusta direzione. O almeno, così mi auguro.
Come i lettori di questo quotidiano sicuramente sanno, l’idea dell’Ufficio di Scollocamento, nata da un’intuizione quasi provocatoria di Simone Perotti, è stata da lui successivamente sviluppata, insieme a Paolo Ermani, nell’omonimo libro (scientificamente oscurato dal mainstream mediatico).
Il progetto si è poi ulteriormente articolato nella promozione e nella realizzazione di una rete nazionale, finalizzata – anche tramite gli incontri sul territorio – alla creazione di un vero e proprio network di persone seriamente intenzionate, una volta per tutte, a smantellare dalle proprie vite i retaggi comportamentali inculcati dal modello di vita occidentale, essenzialmente imperniato sul micidiale circolo vizioso lavoro-produco-consumo, che ha ormai assunto le sembianze di un girone dantesco!
In base alla mia esperienza, è possibile approdare all’idea dello scollocamento provenendo da molti punti di partenza, avendo intrapreso strade anche molto diverse fra loro. Quello che mi preme però ricordare, almeno per come la vedo io, è che scollocarsi non significa banalmente “scegliere di abbandonare un lavoro per trovarne un altro”, magari cavalcando pericolosissimi istinti irrazionali, alimentati da rabbie e frustrazioni represse per anni.
Credo che 'scollocarsi' sia infatti molto di più che 'cambiare' qualcosa nella nostra vita: scollocarsi non è semplicemente una scelta, ma piuttosto la fase conclusiva di un processo, spesso delicato. Un processo fatto di tante scelte, se vogliamo. Ma non è una decisione che si possa improvvisare da un giorno all’altro. E nemmeno da un anno all’altro. Occorrono anni.
Senza scivolare nei meandri di un approccio accademico, mi limito a ricordare che, nel “modello degli stadi di cambiamento” (sviluppato quasi trent’anni fa dai sociologi Di Clemente e Proschaska), la transizione dallo stadio iniziale a quello finale prevede l’attraversamento di almeno cinque fasi: “Precontemplazione” (capisco che è necessario cambiare), “Contemplazione” (aumento la volontà e diminuisco le resistenze al cambiamento), “Preparazione” (mi impegno e pianifico), “Azione/Realizzazione” (attivo il piano/faccio), “Mantenimento” (integro e assimilo il nuovo stile di vita). Bene, in base alla mia esperienza, lo scollocamento dovrebbe abbracciare la totalità di queste fasi: confinarlo in una, o anche solo in un paio di esse, rischia di mandare all’aria l’intero processo.
Come d’altronde ricordano gli stessi autori del libro Ufficio di Scollocamento, “chi ne ha davvero abbastanza non è solo arrabbiato, è anche arrabbiato. Perché sono proprie dell’agire determinato la calma e la concentrazione, l’assiduità e la focalizzazione, e l’onestà verso se stessi. Tutte qualità che lasciano poco spazio all’urlo.”
Scollocarsi significa dunque emanciparsi gradualmente da un sistema di dis-valori, dei quali si è rimasti inconsciamente ostaggi; scollocarsi diventa così, a processo terminato, il risultato organico di una serie di scelte lunga, ostica, spesso osteggiata e in grado di mettere a dura prova la tenacia individuale e, per chi ne ha una, della propria famiglia.
Va però subito chiarita una cosa: se il prezzo da pagare è alto, il premio che alla fine si ottiene è però inestimabile! Perché quel premio è la piena padronanza della nostra vita. È il piacere di sentirla nostra, autentica, saldamente nelle nostre mani e pronta per essere coccolata e indirizzata dove più ci piacerà. Vi pare poco?
Da un punto di vista attuativo, credo invece che lo scollocamento sia innanzitutto una scelta: la pratica quotidiana del disabituarsi alle prassi della nostra vita precedente è il primo, indispensabile esercizio per affrontare efficacemente un percorso di scollocamento. “Togliere!” sentenziò ruvido Mauro Corona, quando gli fu chiesto perché indossasse sempre, anche in inverno, una maglietta senza maniche. In quel verbo c’è il senso assoluto del cambiamento. Eliminare il superfluo. Eliminare tutto quello che non ha impedito, ai nostri nonni, di condurre una vita esemplare e all’insegna di abitudini intramontabilmente sane. Tutti i gingilli con cui ci seduce il progresso sono solo sabbie mobili. Per uscirne e tornare a vivere, dobbiamo liberarcene. Tertium non datur.
In tutto questo, l’Ufficio di Scollocamento ha rappresentato, per me e per mia moglie, una specie di elemento attivatore, quasi un 'lievito comportamentale' in grado di modificare l’impasto delle nostre prospettive e delle nostre decisioni. Fuori di metafora, conoscere e frequentare persone animate dagli stessi gusti (e disgusti) si rivela necessariamente un fattore scatenante per raggiungere la piena coscienza di sè, per infrangere quelle sbarre psicologiche che molto spesso impediscono di seguire le proprie aspirazioni, perché vittime dell’assillante dubbio, tutto post-moderno: “Cosa ne penseranno, poi, gli altri?”. Neanche la 'nostra' vita fosse la 'loro' vita...
Un altro aspetto (assolutamente non marginale) da tenere in considerazione, per chi si avvicina a questi processi di cambiamento, è il 'proprietario' della mano che ti viene tesa: non essendo infatti pensabile affrontare simili percorsi in totale autonomia, diventa fondamentale capire chi saranno i nostri compagni di viaggio e quanto di essi ci si possa fidare. Il mio pensiero va naturalmente al pullulare di organismi, associazioni e movimenti che in questi anni stanno nascendo, per intercettare e catalizzare la dilagante ondata di insoddisfazione a cui stiamo assistendo.
I più scettici arrivano persino a individuare, in questo fervore di movimentismo, un estremo (quasi galvanico) rigurgito del mostro turbo-liberista, una specie cioè di sanguisuga in cerca delle ultime gocce di sangue. Poiché mi piace sempre conoscere ciò di cui parlo, in questi mesi ho frequentato e conosciuto alcune di queste associazioni, giungendo alla conclusione che il gruppo orbitante intorno al progetto di ufficio di scollocamento sia animato da una trasparenza intellettuale, una determinazione e una forza comunicativa che gli altri... se la sognano!
Per tornare quindi al titolo di queste mie considerazioni, la mia speranza è quella di aver trasmesso l’utilità di un serio e ragionato approccio allo scollocamento, inteso non quindi come provocazione 'contro' qualcosa, ma come vocazione 'verso' qualcos’altro, cioè uno stile di vita genuino, autentico e – sotto molti aspetti – anche pacificamente rivoluzionario.
Sabato 8 e domenica 9 dicembre l'Ufficio di Scollocamento sarà a Parma per l'incontro di orientamento “Avvicinarsi all’idea. Paura di cosa?”.
(*) Andrea
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