di
Laura Viviani
09-02-2012
L'articolo 24 del decreto legge sulle liberalizzazioni approvato il 24 gennaio scorso dal governo Monti prevede una semplificazione del processo burocratico per la messa in sicurezza delle scorie radioattive che trasforma i depositi provvisori in depositi stabili. Si riaccende così il dibattito sull'energia nucleare, verso la quale gli italiani hanno ribadito la loro contrarietà nei referendum del giugno scorso.
“Accelerazione delle attività di disattivazione e smantellamento dei siti nucleari”, recita l' articolo 24 del decreto legge sulle liberalizzazioni (Dl n.1/2012) approvato il 24 gennaio scorso dal governo Monti. Un tema controverso quello dello smaltimento delle scorie nucleari, a cui pochi giornali hanno dato spazio. Wwf, Greenpeace e Legambiente avevano subito risposto in modo chiaro alla scelta dell’esecutivo, inviando una lettera al Presidente del Consiglio in cui si sottolineano i rischi di una tale semplificazione del processo burocratico per la messa in sicurezza delle scorie.
Una decisione che riaccende una questione su cui i cittadini si sono espressi nei referendum di giugno dello scorso anno, ribadendo la loro contrarietà e preoccupazione verso l’energia nucleare (lo avevano già fatto in modo chiaro nel 1987). Con il decreto legge i depositi provvisori di rifiuti radioattivi si trasformano in stabili, oltre a permettere la nascita di nuovi siti di 'stoccaggio' che possono essere autorizzati senza il consenso delle amministrazioni locali.
Non è la sola novità nel campo dello smaltimento di rifiuti nucleari. Il 2 febbraio, infatti, la Sogin ha reso noto di aver stipulato un accordo d’intesa con la Assistal (Associazione nazionale costruttori d’impianti) per agevolare le imprese che costruiscono impianti per l’attività di bonifica ambientale dei siti nucleari e la messa in sicurezza dei rifiuti. Una serie di accorgimenti e di controlli che dovrebbe servire a rendere più agevole lo smantellamento dei rifiuti nucleari quindi.
Verrà organizzata “una conferenza annuale sullo stato di avanzamento delle attività di bonifica ambientale dei siti nucleari e sulle policy di acquisti e appalti” oltre “la pubblicazione di una newsletter Sogin rivolta alle associazioni” si legge nel comunicato stampa. Inoltre, “nel campo della formazione saranno promossi seminari e incontri one to one rivolti alle imprese per la qualificazione in Sogin e iniziative sul tema della sicurezza da sviluppare con la Scuola italiana di Radioprotezione, Sicurezza e Ambiente di Sogin”.
Già perché i rifiuti da smaltire sono ancora quelli ad alta radioattività prodotti dalle quattro centrali attive in Italia dalla fine degli anni sessanta alla fine degli ottanta, a Borgo Sabatino, una frazione di Latina, a Sessa Aurunca (Caserta), Trino (Vercelli) e in provincia di Piacenza, a Caorso. Oltre ai rifiuti degli impianti Enea di Saluggia in provincia di Vercelli, a Casaccia, una frazione del comune di Roma, a Rotondella (Matera) e in provincia di Alessandria, l’impianto di fabbricazioni nucleari di Bosco Marengo. Ma non solo, gli scarti radioattivi (anche se a media e bassa attività) si producono continuamente; sono infatti generati dalle attività nucleari in ambito industriale, medico e di ricerca.
Nata nel 1999 da un ramo dell’Enel, la Sogin è una società statale con il compito di bonificare i siti nucleari e di mettere in sicurezza i rifiuti radioattivi del nostro paese. Si finanzia tramite il cosiddetto “onere nucleare”, una tassa che grava sulla bolletta elettrica di tutti noi consumatori, introdotta nel 2000 con un decreto del Ministero dell’Industria.
In particolare, la società deve provvedere alla sistemazione e all’allontanamento del combustibile esaurito, alla gestione delle scorie in fase di esercizio e alla gestione dei rifiuti nucleari che si produrranno in seguito allo smantellamento delle centrali.
La Sogin mise a punto un progetto di “smantellamento accelerato”, che avrebbe consentito l’eliminazione delle scorie in vent’anni, una novità assoluta rispetto al procedimento standard (“smantellamento differito”) che prevede un lasso temporale di smaltimento che varia dai sessanta ai cento anni. Un traguardo forse un po’ troppo ambizioso, come ha ammesso nel 2007 l’ingegnere Massimo Romano: “le attività di progettazione e committenza si sono rivelate più complesse di quanto originariamente prefigurato”.
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