"La scuola può cominciare un’opera di trasformazione da istituzione educativa a quella di centro pedagogico, culturale, sociale, sanitario che faccia da raccordo tra le famiglie e una realtà che si fa sempre più difficile e complessa". La community school, più simile ad una comunità che ad una istituzione, cerca di realizzare questo progetto.
Nella nostra società occidentale ci sono tipi diversi di istituzioni, alcune delle quali agiscono con un potere inglobante - seppur discontinuo - più penetrante di altre. Questo carattere inglobante o totale è simbolizzato nell'impedimento allo scambio sociale e all'uscita verso il mondo esterno, spesso concretamente fondato nelle stesse strutture fisiche dell'istituzione: porte chiuse, alte mura, filo spinato, rocce, corsi d'acqua, foreste e brughiere. Questo tipo di istituzioni io le chiamo 'istituzioni totali' ed è appunto il loro carattere generale che intendo qui analizzare.
(Erving Goffman, Asylums)
La prima volta che sentii l’espressione 'istituzione totale' fu una quindicina di anni fa ad una conferenza tenuta da Renato Curcio e da un reduce del Vietnam divenuto monaco buddista dove si parlava di guerra e di carcere. Pur sapendo che il paragone è estremo, per tutte le storie che ho ascoltato e vissuto, mi sono reso conto che per molti la scuola è divenuta veramente un carcere e che tanti genitori e bambini vivono in lotta con le istituzioni.
Prima però che qualcuno possa pensare che chi scrive sia contro la scuola statale vorrei segnalare a titolo d’esempio da seguire un’istituzione non totale bensì integrata e globale che è in grado di proporre piani di studio individualizzati, in un contesto ricco di progetti, ovvero la scuola secondaria di primo grado Lucio Lombardo Radice di Roma dove il piano di offerta formativa è un capolavoro e la preside Simonetta Caravita e i suoi collaboratori sono un esempio straordinario e il loro lavoro encomiabile, tanto da meritare molto più spazio di questa semplice annotazione.
La riflessione di oggi voleva essere su come la scuola come istituzione stia scavando un solco sempre più profondo tra lei e i bisogni reali dei bambini, in nome di programmi, leggi, invalsi, paura di denunce, ricorsi e di quanto tutto questo stia contribuendo all’aumento progressivo della frustrazione da parte dei docenti, di fenomeni di abbandono e di bullismo da parte degli alunni.
La scuola può cominciare un’opera di trasformazione da istituzione educativa a quella di centro pedagogico, culturale, sociale, sanitario che faccia da raccordo tra le famiglie e una realtà che si fa sempre più difficile e complessa. I bambini, i ragazzi sono il futuro e dobbiamo mostrare loro attraverso l’esempio che la vita è degna di essere vissuta e non va consumata, che l’essere umano è un capolavoro che può esprimersi in infiniti modi, che la collaborazione porta a risultati inimmaginabili per il singolo, che ciò che vive a scuola è vivo anche nella società e che gli insegnanti sono uomini e donne che conoscono il mondo e sanno coltivare la fiducia nei talenti di ogni bambino.
Un luogo che tenda ad essere questo è più simile ad una comunità che ad una istituzione. La community school è un progetto che cerca di realizzare questo ideale mettendo al centro le persone e non le istituzioni, perché la scuola è stata fatta per i bambini e non i bambini per la scuola.
Il messaggio che i sei bambini di questo piccolo progetto mi hanno mandato è stato proprio quello di aver riavuto accesso alla libertà, che il quarto d’ora di ricreazione seduti era anche meno dell’ora d’aria dei detenuti, che i compiti erano più simili ai lavori forzati, che le interrogazioni erano come interrogatori, che i genitori trasformati ora in avvocati difensori ora in testimoni d’accusa assistevano impotenti alla loro condanna alla morte creativa.
I problemi del carcere sono finiti e sono iniziati quelli della gestione della libertà, perché limiti da superare, problemi da risolvere, ci sono anche ora e ci saranno sempre.
Le porte del carcere sono state aperte, sta a noi andare incontro alla Vita.
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