"Scup è tornato!" Sport e cultura contro la speculazione

Reportage da un'occupazione. Dopo lo sgombero del 25 gennaio il centro sportivo e culturale di San Giovanni, Roma, è stato rioccupato. C'eravamo anche noi, per raccontare come un gruppo di cittadini ha deciso di sopperire alle mancanze dello stato; e di come lo stato ha cercato di impedirglielo per favorire loschi affari di speculazione e interessi di banche private. Fortunatamente senza successo.

“Grande che sei venuto!”. Manuel sorride ma è teso, come tutti gli altri. Qualcuno fa colazione, un caffè col cornetto, qualcun altro porta un po’ di pizza, la maggior parte non riesce a mandar giù niente. È l’8 febbraio. Arrivo con qualche minuto di anticipo sull’appuntamento, fissato per le 11. Siamo ancora troppo pochi, una ventina di individui raggruppati sotto al CSOA Sans Papier. Tutti lì per una ragione: riprendersi S.c.u.p.!, il centro di Sport e cultura popolare di San Giovanni sgomberato pochi giorni prima. Alle 11,30 arriva un po’ di gente dal Nuovo Cinema Palazzo, dall’Esc, da altri centri occupati romani. Adesso saremo quasi una cinquantina. Si parla facendo finta di niente, si scherza per stemperare la tensione. Poco più avanti, due soggetti continuano a fissarci: sono due agenti in borghese, mi dicono. Spunta una scala, c’è chi ha portato i coriandoli, le sacche con gli attrezzi. Il segnale: iniziamo a camminare verso via Nola. Arrivati all’altezza degli archi che fiancheggiano i giardini della Basilica di Santa Croce in Gerusalemme attacchiamo a correre. Il semaforo, la cancellata, un salto e siamo già dentro, “la scala! La scala!” urla qualcuno, mentre altri forzano il cancello dall’interno. Il vigilante che da due settimane sorveglia lo stabile sgomberato si rinchiude dentro la sua Smart: è sorpreso e un po’ impaurito; nessuno ha cattive intenzioni ma lui questo non lo sa; appena il cancello cede, esce. Ci stiamo riprendendo Scup! Me lo aveva detto qualche giorno prima Manuel: “Se lo ripijamo, venerdì se lo ripijamo!” Manuel è l’istruttore di kick boxing di Scup; frequento il suo corso da qualche mese. “Filmatemi quando sfondo il muro con un calcio girato”, aveva aggiunto scherzando. Il muro a cui si riferiva era quello che era stato tirato su in fretta e furia a suon di blocchi di cemento dopo lo sgombero, a bloccare l’entrata principale dello stabile. Qualcuno vi aveva scritto sopra col pennarello “Noi apriamo spazi, voi alzate muri”. La prima occupazione Lo stabile era stato occupato nel maggio 2012. È un grosso edificio (due immobili, di cui il maggiore composto da tre corpi di fabbrica, con tre piani di cui uno interrato, 3.550 metri quadrati totali) ex sede della motorizzazione civile, in seguito dismesso e venduto a privati. Alcuni degli occupanti facevano riferimento ad Action, l’associazione che da anni si batte per il diritto alla casa, composta in maggioranza da precari, migranti, sfrattati e senzatetto. L’idea degli occupanti era quella di creare un centro di sport e cultura popolare per gli abitanti della zona. Da qui il nome, S.c.u.p.! Nel giro di pochi mesi Scup aveva attivato decine e decine di corsi ed era diventato un punto di riferimento per l’intero quartiere. “Provavamo a costruire lo stato sociale che non c’è”, mi dice Bartolo Mancuso di Action, “e lo facevamo rincorrendo l’eccellenza. Non c’era niente di improvvisato: avevamo istruttori sportivi che avevano tutte le abilitazioni necessarie, insegnanti di arabo, francese o inglese madrelingua, veri cuochi, psicologi abilitati e pedagoghi laureati”. Le attività erano delle più svariate. Corsi di capoeira, boxe, kick boxing, karate, kung fu e decine di altri stili di combattimento per adulti e bambini. Ginnastica posturale, atletica, danza africana e balli popolari. C’erano corsi di lingua e di traduzione, attività per i più piccoli, un’aula studio dotata di connessione wi-fi. Un bar, una taverna e un mercatino ecologico e solidale ogni prima domenica del mese. Scup aveva fatto fare un salto qualitativo alla pratica dell’occupazione. Non era più soltanto un modo di fornire una casa a chi non l’aveva. Qui si provava a sopperire alle carenze del settore pubblico sotto ben due aspetti: da un lato si forniva un servizio al quartiere offrendo sport a prezzi popolari, favorendo l’integrazione dei migranti, occupandosi dei bambini delle giovani madri lavoratrici; dall’altro si offriva occupazione a una forza lavoro specializzata, fatta di laureati e professionisti cui lo stato aveva voltato le spalle. “L’occupazione è una pratica di emancipazione per una generazione che non ha altri modi di esprimere le proprie competenze, la propria formazione”, mi dice ancora Bartolo. Anche il quartiere aveva iniziato ad apprezzare il centro, che si scollava da quell’idea diffusa che vuole i centri occupati essere dei ricettacoli di spaccio e consumo di droga, buoni al massimo per organizzare feste e serate divertenti. “Erano bravi loro” mi dice una signora al mercato pochi giorni dopo lo sgombero. Speculazione di stato? E poi c'è la storia di speculazione legata allo stabile. I documenti che gli occupanti hanno iniziato ad analizzare fanno emergere una storia tutt’altro che chiara legata all’ex motorizzazione. L’edificio era stato di proprietà del Ministero dei Trasporti fino al 2004. Poi, nel dicembre di quell’anno, l’allora ministro dell’Economia e delle Finanze Domenico Siniscalco, da poco succeduto al dimissionario Tremonti, aveva inserito lo stabile nel Fondo immobili pubblici (Fip) appena creato. Il Fip era stato ideato da Tremonti e rientrava nelle politiche di dismissione del patrimonio pubblico volute dal governo Berlusconi. Consisteva in un grosso fondo immobiliare che aveva - ed ha ancora oggi - il compito di vendere a privati alcuni immobili di proprietà stato italiano. Inizialmente contava 394 immobili ad uso "non residenziale", perlopiù sede di uffici locali di Ministeri, Agenzie Fiscali ed Enti Previdenziali, per un valore di totale di 3,7 miliardi di euro. Ma da chi è gestito il Fip? Dallo stato, si potrebbe pensare. Invece no. Il fondo è gestito da una “società di gestione del risparmio” chiamata Investire Immobiliare. Investire Immobiliare a sua volta è controllata per l’80 per cento dalla Banca Finnat, di proprietà della famiglia Nattino e con Francesco Gaetano Caltagirone in consiglio di amministrazione. Ecco cosa diceva della Banca Finnat e dei Nattino Stefano Ricucci, interrogato dai magistrati nel 2007 per via della scalata a Bnl e Antonveneta. Ricucci: “Sa che cos'è la banca Finatt? Chi è Nattino?". Pm: "E che fa questo Nattino?". Ricucci: "... Ma lei vuole che a me mi uccidono stasera qui dentro. Lei forse non si rende conto di chi sta a toccare lei. Mi faccia la cortesia, lei lasci perdere questo dottore... io lo dico per me poi, se lei vuole andare avanti, lo faccia. Lei fa quello che gli pare, ci ha 600 persone che la proteggono, ma a me chi mi protegge? Nessuno, su questa roba […] Senta, dotto', secondo me, la Finatt è una banca molto vicina a... al mondo della massoneria”. [1] Ovvio, Ricucci non è un testimone particolarmente attendibile ed è nota la sua tendenza all’esagerazione, ma si tratta comunque di dichiarazioni che fanno riflettere. Ma riprendiamo le fila del discorso. Dunque nel 2004 lo stato conferisce al Fondo immobili pubblici – leggasi alla famiglia Nattino – una serie di stabili fra cui l’ex motorizzazione. Dal momento del conferimento il Ministero dei Trasporti inizia a pagare al Fip un canone di 260.382 euro l'anno, nonostante lo stabile sia difatto abbandonato ed il fondo non affronti alcuna spesa di gestione. Più di un milione e mezzo di euro fino al 2010. Poi nel maggio 2010 accade che il Fip riesce ad assolvere il proprio compito principale, che consiste nel vendere gli immobili statali. Vende lo stabile. Ed è qui che la vicenda diventa decisamente oscura. Ad acquistare l’edificio è una società denominata F&F immobiliare, che viene creata proprio nel maggio 2010 al momento dell'acquisto, dopo di che resta inattiva fino ad oggi. Una società creata ad hoc per comprare l’edificio. I suoi soci proprietari sono due anziani signori, probabilmente due prestanome: Fernando Morelli, 80 anni, e Fiorella Pagliuca, 73 anni, entrambi residenti nello stesso appartamento di Viale Parioli. I due hanno conferito un capitale sociale al momento della creazione di F&F di 5mila euro a testa. Poi, la F&F, con 10mila euro totali di capitale, si è indebitata per un valore di 4.829.345 €, quasi 5 milioni di euro, per acquistare il palazzo. Dopodiché non si è mai interessata ad esso, non ha mai esatto la sua consegna, tant’è che questo è rimasto in stato di abbandono. L’intera vicenda puzza di speculazione e di riciclaggio, al punto che nel luglio 2012, due mesi dopo l’occupazione, il senatore Vincenzo Vita ha presentato una interrogazione al Ministero dell'economia per chiedere chiarimenti riguardo alle vicende oscure che riguardano lo stabile di Via Nola 5. Lo sfratto e il ritorno L’occupazione del maggio 2012 era proseguita senza grossi problemi fino al gennaio successivo. Nel frattempo Scup era cresciuto: erano aumentati i corsi e i frequentatori, già si parlava di costruire le docce con i primi soldi delle iscrizioni. Poi d’un tratto lo stato ha deciso di consegnare lo stabile ai “legittimi” proprietari. All’alba del 25 gennaio, un venerdì, circa un centinaio tra poliziotti e carabinieri guidati dalla Digos hanno fatto irruzione nel palazzo. Hanno svegliato i quattro occupanti che dormivano all’interno e in quattro e quattr’otto hanno sgomberato l’edificio. Via i sacchi da boxe, il tatami, i libri per i bambini, i quadri, tutto il resto. Nell'occasione un poliziotto ammise “certo che l’avete tenuto bene”. Non ero a Roma quel fine settimana e ho appreso la notizia su Internet. La sensazione era quella di venir privati di qualcosa di estremamente importante, e non per mano di un nemico riconosciuto, ma per mano dello stato. “Lo stato sta sfrattando il pubblico per consegnare al privato, diventa il braccio della speculazione”, mi avrebbe detto qualche giorno dopo Bartolo Mancuso. Ed era esattamente così. Ma gli ex-occupanti di via Nola non erano tipi da perdersi d’animo facilmente. Appena usciti da Scup bloccano la strada, improvvisano una serie di corsi e lezioni all’aperto, poi partono in corteo, in centinaia. Nel pomeriggio occupano una palazzina 50 metri più avanti, questa volta di proprietà dell’Atac, anch’essa abbandonata. Sarà una mossa strategica importante per riprendersi Scup. Le attività continuano nella nuova sede. Certo gli spazi non sono gli stessi (e soprattutto per le attività sportive il deficit è notevole) ma in attesa di rioccupare può andar bene. Si raccolgono firme, si sparge la notizia, in breve sono in molti a mobilitarsi per riavere indietro Scup. L’hashtag #torniamosubito inizia a girare in rete. Ed ecco che arriviamo all’8 febbraio e alla decisione di rioccupare il palazzone di via Nola. Eccoci alla corsa, il salto, la scala. In breve le catene vengono rotte e le porte saldate riaperte. Siamo dentro. In quattro o cinque salgono sul tetto piatto dell’edificio e appendono uno striscione: “Siamo Tornati!”. Manuel sta in piedi sull’angolo estremo del tetto, a pochi centimetri dallo strapiombo, simile a un guerrigliero vittorioso. Jojo detto “il sindaco” grida e canta dalla balaustra, due ragazze iniziano a lanciare coriandoli. Arriva la polizia, ma siamo già in troppi per essere cacciati di nuovo. Scup è rinato. Il giorno successivo la parete che murava l’ingresso principale viene fatta cadere, i corsi e le attività riprendono regolarmente, come se niente fosse accaduto. Torno ad allenarmi pochi giorni dopo. Entro, saluto gli altri, mi sento a casa. NOTE: [1] Gli interrogatori di Ricucci/2

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