di
Francesco Bevilacqua
28-05-2012
Sicurezza interna e operatività nelle zone di guerra sono attività in continua evoluzione. Negli Stati Uniti stanno però crescendo in maniera incontrollata, dando luogo a un apparato con due caratteristiche principali: dimensioni esagerate e massiccio affidamento a soggetti privati.
Una nuova ondata di maccartismo sta investendo gli Stati Uniti, anche se oggi lo spauracchio degli americani non sono più le infiltrazioni comuniste, ma le minacce portate dal terrorismo, in particolare quello islamico. Lo spartiacque è rappresentato dall’11 settembre del 2001: secondo Dana Priest e William Arkin, il bilancio del comparto di intelligence statunitense è passato da 3,5 a 75 miliardi di dollari nei nove anni successivi all’attentato alle torri gemelle.
Priest e Arkin sono giornalisti del Washington Post e autori di un colossale reportage intitolato Top Secret America, che ha richiesto quasi due anni di lavoro e ha mappato dettagliatamente lo sconfinato apparato di sicurezza, più o meno occulto, degli Stati Uniti.
Oltre ad una precisa descrizione delle strutture, delle organizzazioni, delle ramificazioni e delle tecnologie di tale apparato, emerge un dato interessante dal grande lavoro svolto dai due giornalisti: la sicurezza – e, più in generale, una fetta sempre maggiore del settore militare e bellico – sta subendo un massiccio processo di privatizzazione.
Diverse sono le ragioni di questo fatto. Da un lato, si tratta di una questione economica: subappaltare importanti fasi dell’attività – dalla programmazione informatica alle operazioni sul campo – ad agenzie esterne private, consente di ottimizzare le risorse. D’altra parte, quella dell’esternalizzazione è una pratica ampiamente diffusa nel mercato globale di oggi. Dall’altro lato, soprattutto per quanto riguarda le situazioni più delicate, per esempio quelle che mettono a rischio l’incolumità degli operatori, il ricorso a compagnie private consente di coprire l’attività con un velo di discrezione che oggi viene ritenuto indispensabile, soprattutto dal punto di vista politico e dei rapporti con l’opinione pubblica.
Ma questo immenso apparato non è affatto esente da difetti. In particolare, sembra di soffrire di una grave forma di gigantismo; è talmente ampio e ramificato da risultare, in alcuni casi, addirittura inefficace.
Un esempio in proposito è l’attentato, fallito per un soffio, che il nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab tentò di compiere a bordo del volo Amsterdam - Detroit il 25 dicembre del 2009. Abdulmutallab, condannato all’ergastolo pochi mesi fa, era da tempo nel mirino di varie branchie dell’apparato di sicurezza americano e segnalato anche dai servizi britannici come personaggio sospetto più di un mese prima dell’attentato. Ciononostante, a causa della vastità del sistema informativo, le informazioni su di lui non furono processate correttamente e non diedero luogo ad alcuna contromisura, tanto che il tentativo di strage fallì solo grazie all’intervento di un altro passeggero del volo.
Alla privatizzazione del sistema di sicurezza corrisponde una definizione che, soprattutto nei teatri di guerra mediorientali, è sempre più diffusa: private military company, private security contractors, private military corporations o più semplicemente contractors, ovvero gli appartenenti ad agenzie di sicurezza private che collaborano con contratti specifici, oltre che con altri soggetti privati come aziende petrolifere, figure diplomatiche o imprenditori, con governi e ministeri.
Sempre secondo i dati raccolti da Priest e Arkin, quasi un terzo degli 854mila operatori di sicurezza americani sono a contratto. La combinazione di questi due fattori – massiccio outsourcing ed eccessive estensione e ramificazione – rendono questo apparato fortemente instabile, tanto che sono gli stessi rappresentanti istituzionali americani ad ammettere che il rischio di perdere il controllo della situazione è concreto. Lo stesso generale John Vines, già a capo delle operazioni americane in Afghanistan e in Iraq, si è dichiarato dubbioso sugli effetti positivi di questa incessante e, spesso, indeterminata attività di controllo.
Esempi clamorosi delle degenerazioni cui può portare questo sistema sono le discusse operazioni portate avanti dalle ormai note agenzie di contractors, una su tutte la Blackwater Worldwide, i cui uomini uccisero 14 civili inermi durante uno scontro a fuoco a Baghdad. Dal 2007, anno del fattaccio, la Blackwater ha cambiato nome due volte. Oggi, con la nuova denominazione di Academi, la società vuole ritornare in Iraq, come ha recentemente dichiarato il nuovo amministratore Ted Wright.
Per via dei gravi problemi che provocano, molti governi hanno avviato una campagna di estromissione delle agenzie di sicurezza private dai propri territori; fra essi vi sono anche quello iracheno e quello afghano – proprio la questione contractors è stato oggetto di un acceso scontro fra Hilary Clinton e Hamid Karzai. Ciononostante, il governo americano ha deciso di puntare con decisione su questo tipo di collaborazioni, a maggior ragione oggi che la comunità internazionale lo ha indotto a pianificare con più solerzia il ritiro delle truppe regolari dai paesi occupati.
Il Dipartimento di Stato ha stanziato 10 miliardi di dollari per finanziare un esercito di 5500 contractors, forniti da otto private military corporations, che protegga il personale americano che rimarrà in Iraq anche dopo che l’esercito sarà rientrato negli Stati Uniti.
Ma com’è la situazione in Italia? Caotica e mal definita. La questione della sicurezza privata in zone di guerra è venuta alla ribalta nel nostro paese nel 2004 con il caso Quattrocchi, l’operatore ucciso in Iraq dalle Falangi Verdi. Secondo l’articolo 288 del codice penale italiano, “chiunque, nel territorio dello Stato e senza approvazione del Governo arruola o arma cittadini, perché militino al servizio o a favore dello straniero, è punito con la reclusione da tre a sei anni”.
L’attività, così come viene portata avanti dalle agenzie di contractors negli Stati Uniti, sarebbe quindi quasi totalmente paralizzata in Italia dai vincoli legali o per lo meno costituirebbe un reato. Le informazioni su questo settore sono frammentarie e poco attendibili, provenienti per lo più dalle dichiarazioni di operatori del settore come Giampiero Spinelli, il responsabile che reclutò Quattrocchi nel 2004 e che per questo venne imputato dal Tribunale di Bari insieme al collega Salvatore Stefio. I due furono assolti nel 2010.
I servizi segreti italiani sono stati riformati meno di cinque anni fa mediante la legge 124, che ha istituito l’AISE, l’AISI – Agenzie Informazioni e Sicurezza Interna ed Esterna – e il DIS, Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza. Naturalmente il contesto politico e sociale italiano rende impossibile qualsiasi paragone con la realtà americana descritta. La particolare storia del nostro paese, sigillata da troppi segreti di stato e costellata di stragi impunite, uccisioni misteriose, traffici e connivenze insinuatisi con molta probabilità sin fra le più alte cariche istituzionali, rende difficile ricostruire il contesto in cui si svolgono queste attività, per loro natura già complesse da analizzare.
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