di
Francesco Bevilacqua
03-09-2013
Dopo l’offensiva di Damasco del 21 agosto, in cui sarebbero state utilizzate armi chimiche, sta prendendo corpo l’opzione di un intervento militare diretto da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati. Sono tuttavia diverse le incognite che gravano su questa allarmante ipotesi.
Da una decina di giorni a questa parte, la situazione in Siria – già gravemente compromessa – ha preso un’ulteriore, preoccupante, piega, che in realtà molti si aspettavano. L’attacco rivolto il 21 agosto contro una zona della periferia di Damasco e caratterizzato dall’utilizzo di armi chimiche – anche se ancora non capisce quali e soprattutto da parte di chi – ha infatti fornito la giustificazione al premio Nobel per la pace Barack Obama per rivolgere alla Siria di Bashar al-Assad inquietanti minacce di attacchi militari, che attendono il via libera da parte del Congresso – e, forse, una valutazione più ponderata da parte dello staff bellico americano e dei suoi alleati – per divenire una dichiarazione di guerra ufficiale.
Poco importa se manca il mandato delle Nazioni Unite e se gli ispettori ONU giunti in Siria per verificare la presenza e l’impiego effettivi di presunte armi chimiche necessitano ancora di giorni, se non settimane, per concludere la loro missione. La riedizione dell’operazione Iraqi Freedom, con Obama nel ruolo di Bush e Assad in quello di Saddam Hussein, è pronta per essere messa in scena. A sostegno degli Stati Uniti, gli alleati del Golfo e quelli europei, con Francia, Gran Bretagna e – ahinoi – Italia in testa, anche se sia Bonino che Hollande si sono recentemente cautelati chiedendo che quantomeno si attenda una risoluzione da parte del Consiglio di Sicurezza.
In realtà, sono numerose le variabili che possono ancora condizionare lo svolgersi degli eventi nei prossimi giorni. Anzitutto, l’opinione pubblica interna americana e la situazione economica degli Stati Uniti sconsigliano caldamente un impegno militare diretto nello scenario siriano, che rischia di trasformarsi in una palude per le forze atlantiste, come già è successo in Afghanistan e in Iraq.
Bisogna inoltre considerare la condizione economica generale: il debito pubblico statunitense è ai livelli di quello italiano – circa 126% del PIL –, mentre il deficit sfiora il 7%, come in Grecia, tanto che è previsto un innalzamento del tetto del debito per il mese di ottobre, esattamente in corrispondenza della fase calda del conflitto, nel caso in cui Obama decidesse di spianare le armi in Siria. Esiste poi un fronte interno che non vede di buon occhio l’ingresso in guerra.
Uno dei suoi più illustri rappresentanti è il Capo degli Stati Maggiori, il Generale Martin Dempsey, che ha ripetutamente dichiarato negli ultimi tempi che “la risoluzione di storici scontri etnici, religiosi e tribali richiederà molto lavoro e molto tempo”.
Altra variabile molto importante è il ruolo dei diversi attori geopolitici internazionali. Fra gli storici alleati atlantisti figurano l’Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia e Israele. Non tutti però sono pienamente convinti che l’intervento diretto in Siria sia la soluzione migliore. Gerusalemme in particolare teme ritorsioni da parte dell’Iran e del Libano, suoi dirimpettai e forti alleati di Assad.
Dalla parte del presidente siriano si sono schierate anche altre influenti potenze, come la Russia e la Cina. Sono di questi giorni le esternazioni di Lavrov, Ministro degli Esteri di Putin, che considera le accuse in merito all’utilizzo di armi chimiche da parte dell’esercito regolare infondate e prive di prove concrete che, in effetti, gli americani non forniscono, in quanto – a detta loro – coperte da segreto. A proposito dell’episodio di Damasco, i pochi dati ufficiali, comunque non verificati, sono forniti da Medici Senza Frontiere, che afferma di “aver ricevuto circa 3.600 pazienti con sintomi neurotossici in meno di tre ore la mattina di mercoledì 21 agosto”.
D’altra parte, la testata indipendente Mint Press News ha raccolto diverse testimonianze di residenti della zona e, soprattutto, di persone aggregate all’esercito dei ribelli, che hanno riferito di strani equipaggiamenti forniti da Bandar Bin Sultan, capo dell’intelligence saudita. Il tutto rimane, per ora, privo di conferme ufficiali da parte degli ispettori ONU, incaricati di svolgere un’indagine sul campo che sarà decisiva per capire se sono state effettivamente utilizzate armi chimiche, di quali tipologie e soprattutto chi è stato a farne uso.
Tuttavia, tutti ricordiamo la farsa delle fantomatiche armi di distruzione di massa in mano all’esercito iracheno. Gli stessi ispettori ONU non ne trovarono neanche una, ma questo non impedì all’amministrazione Bush di attaccare l’Iraq. È il gioco a cui gli Stati Uniti ricorrono da decine di anni – Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia –: trovare una scusa che giustifichi un intervento militare diretto e attaccare il paese inviso. In Siria però la situazione è inedita, poiché mai si erano trovati ad affrontare un avversario così solido e ben supportato dagli alleati e mai avevano dovuto fare i conti con una condizione interna così precaria.