di
Elisa Magrì
21-08-2013
'La società dei beni comuni' (Ediesse 2010), curato da Paolo Cacciari in collaborazione con docenti universitari e cittadini attivi, esplora il significato della nozione di beni comuni, indagandone l'estensione e la validità, soffermandosi sui problemi giuridici e pratici che tale concetto presenta, fino a proporre una serie di buone pratiche di gestione comunitaria di saperi e risorse.
Ricordo che, durante la campagna di raccolta firme per la ripubblicizzazione dei servizi idrici, numerose persone, al motto “Acqua bene comune”, mi dicevano, polemicamente, che si trattava solo di uno slogan e nient'altro, insufficiente a giustificare da solo la validità della campagna. Mai come allora tre parole messe in fila contenevano, invece, un significato molto più complesso e rilevante. Lo si comprende bene sfogliando La società dei beni comuni. Una rassegna (Ediesse 2010), a cura e con un'introduzione di Paolo Cacciari.
Il volume raccoglie una serie di interventi che esaminano in dettaglio il significato della nozione dei beni comuni, soffermandosi sulla loro classificazione, sull'importanza del loro riconoscimento e della loro corretta tutela, nonché sulle implicazioni giuridiche ed etiche sottese dalla loro rivendicazione in senso egualitario e democratico. Un utile compendio di buone teorie e di buone pratiche, corredato da una ricca bibliografia, che fa riflettere sui tanti assunti che diamo per scontati o non vincolanti quando si parla di diritti e tutela dell'ambiente, di democrazia partecipata o di valori sottratti alla legge del profitto.
Anzitutto, come si fa a riconoscere questi beni speciali? Risponde Cacciari, nell'Introduzione, che si danno due caratteristiche essenziali: “la prima: nessuno può affermare di averli prodotti in proprio (...). La seconda: sono beni necessari, indispensabili e insostituibili per la vita di ogni individuo”. A questo proposito Luigi Lombardi Vallauri, docente di Filosofia del diritto all'Università di Firenze, distingue ancora, all'interno dei commons, fra beni non esclusivi, come i beni del corpo, della mente e della relazione affettiva, i quali non solo non escludono l'altro, ma anzi lo includono necessariamente nel tessuto umano, e beni essenziali (acqua, cibo, ambiente, scuola, sanità, servizi), fondamentali per lo sviluppo della persona umana. In questo senso la produzione di beni comuni esclusivi, ovvero essenziali, si dimostra orientata all'uguaglianza tra tutti gli esseri umani, ovvero a garantire il primato dei beni non esclusivi.
Tratto saliente di tutte le definizioni è l'indipendenza dei beni comuni dalle leggi del mercato, in quanto questi beni sono di per sé irriducibili ad un calcolo quantitativo per il fatto incontrovertibile di essere alla base della vita. Le classificazioni dei commons servono, dunque, non a confondere e complicare il discorso, ma, al contrario, se elaborate con correttezza, permettono di ricostruire una visione dell'essere umano e delle sue finalità fondamentali. In concreto queste definizioni mostrano l'interconnessione del bene comune con la vita umana individuale e collettiva, rivelandosi decisivi per la stessa connotazione della società e della democrazia. Non si può, allora, parlare di beni comuni senza discutere del loro nesso costitutivo con la società e l'economia.
Come ricorda Bruno Amoroso, docente emerito dell'Università di Roskilde (Danimarca), l'Italia ha alle spalle un'esperienza di beni comuni radicata nello Stato, che si pose dopo la seconda guerra mondiale come il solo garante del progetto di ricostruzione nazionale. Se oggi il mutato quadro storico ha depotenziato e svilito la funzione statale, sarebbe errato rimettere la questione dei beni comuni a logiche privatistiche. Scrive, infatti, Amoroso: “L'esperienza italiana ed europea è un esempio di esproprio statale dei beni comuni (o pubblici che siano) messi a disposizione di interessi estranei a quelli delle comunità di appartenenza, attuato prima per via politica e poi mediante il 'mercato'. Questo è stato possibile prima con un'operazione culturale che ridicolizzasse ogni riferimento ai valori, ai miti, al territorio, ecc.; poi, messo sull'altare il nuovo Dio, il mercato, il gioco è fatto”.
Come uscire dalla logica che pone come sola alternativa allo Stato il mercato? Amoroso su questo punto è chiarissimo: “Di nuovo non ci sono scorciatoie, ma solo percorsi culturali e sociali, tipo quelli su cui si sono impegnate molte delle nostre organizzazioni e movimenti. Punto di partenza, i beni comuni appartengono alle comunità di appartenenza e per il valore che assumono in quei luoghi e per quelle persone non sono espropriabili o compensabili, se con un atto di guerra, come di fatto avviene”.
Che i movimenti dal basso rappresentino in questo momento la sola strada praticabile per mutare l'atteggiamento presente, è una realtà nota a chi si soffermi a considerare le debolezze delle politiche governative recenti. Pochi forse sanno o ricordano, come fa Rete@sinistra nel volume, che l'ultimo governo Prodi aveva istituito nel 2007 una commissione ministeriale presieduta da Stefano Rodotà per riformulare lo statuto giuridico e garantire una gestione pubblicistica dei beni comuni. Uno dei tanti tentativi di quel governo non andato in porto, ma che dimostra come la questione sia già all'ordine del giorno e oggi ancora dibattuta. I problemi principali riguardano, infatti, la cosiddetta “gestione” dei commons e il loro statuto giuridico.
Cominciamo dal primo: dal momento che si tratta di beni non monetizzabili, i commons sono di per sé irriducibili al binomio, tante volte proclamato dai fautori del libero mercato, “proprietà pubblica ma a gestione privata”. Si tratta di un vecchio trucco che, spiega Rete@sinistra, “senza banalizzare, sarebbe come affermare che un bosco rimane patrimonio della comunità, ma i sentieri di accesso vengono sbarrati, tariffati e il Corpo forestale quotato in borsa!”. Purtroppo è un trucco che ha fatto presa sulla cultura politica e generale degli ultimi decenni: pensate soltanto alla ricorrenza ossessiva del lemma 'governance', adoperato quasi sempre da giornali e televisioni in sostituzione a 'governo'.
Riccardo Petrella, professore emerito all'Università cattolica di Lovanio (Belgio), spiega che l'uso del concetto di governance risale alla seconda metà degli anni '70, dopo la crisi finanziaria del 1971-3. Irreversibilmente tramontato il sistema nato nel 1945 della convertibilità del dollaro in oro e dei tassi di cambio fissi, istituti di credito e società di rating disposero i nuovi criteri quantificabili sulla base dei quali valutare le opportunità di investimento, decidendo dei nuovi pacchetti azionari (OPA). Il principio adottato consisteva nel giudicare buona un'operazione finanziaria in funzione del suo contributo alla ottimizzazione della crescita di ricchezza per gli azionisti.
Scrive Petrella: “Dalla valutazione delle operazioni finanziarie, il criterio in esame fu rapidamente applicato alla valutazione della gestione generale di qualsiasi impresa (e non solo quelle quotate in Borsa) e poi esteso alla gestione di un settore industriale od economico, servizi pubblici compresi”. Dalla fine degli anni '80 il metodo della governance è stato applicato da governi e imprese per valutare ogni scelta economica e sociale. Significa che il valore di una cosa, di una strategia o di un'impresa dipende unicamente dal suo contributo alla creazione di valore per il capitale e per i suoi detentori. Gramsci l'avrebbe forse chiamata, come Petrella, egemonia ideologica e culturale del concetto di governance, oggi stabilmente piazzata in un'Unione Europea completamente schierata a suo favore.
Occorre appropriarsi e far valere strategie alternative alla logica della governance, non soltanto sul versante della rieducazione culturale, la quale rappresenta comunque – è importante ribadirlo – la via più importante da intraprendere per avviare un cambiamento effettivo. Mario Pezzella, docente della Scuola Normale Superiore di Pisa e dell'Università di Pisa, rilancia le “istituzioni di democrazia insorgente (Consulte, Comuni, Consigli), delegate e controllate direttamente dalla cittadinanza attiva” contro le logiche finanziarie astratte che caratterizzano oggi la democrazia-spettacolo. Ma si può dibattere, come invita a fare Rete@sinistra, sulle varie forme di amministrazione collettiva e fiduciaria di un bene comune.
Il problema dello statuto giuridico dei beni comuni concerne da vicino quella che Giovanna Ricoveri, sindacalista della CGIL, definisce la sottovalutazione che riserviamo ai beni e ai servizi ecosistemici fornitici gratuitamente dalla Terra, quella biocumunità su cui si sofferma, tra l'altro, Laura Marchetti, docente dell'Università di Foggia. Oggi non identifichiamo il territorio come il nostro habitat, sempre più saccheggiato da una pianificazione selvaggia, documentata da Edoardo Salzano, fondatore di www.eddyburg.it. Pochissimi serbano intatta la conoscenza effettiva della propria terra, poiché i più lasciano che le spiagge siano svendute e le montagne traforate per dare retta alle logiche di un profitto che arricchirà, peraltro, detentori di titoli azionari di società quotate in borsa e non gli abitanti di quei territori messi a soqquadro. Tonino Perna, ordinario di Sociologia economica all'Università di Messina, difende la bontà degli 'usi civici', come quelli che regolavano nelle comunità il taglio della legna, la raccolta dei funghi, la caccia e la pesca.
In questo quadro si tratta di riappropriarsi della gestione comunitaria dei beni vitali passando per l'attribuzione dei diritti alle risorse naturali, al modo insegnato dalla Costituzione dell'Ecuador del 2008, il cui art. 71 recita: “Ogni persona, comunità, popolo o nazionalità potrà pretendere dalle autorità pubbliche l'osservanza dei diritti della natura”. Le rivoluzionarie costituzioni della Bolivia e dell'Ecuador, ricordate dall'economista Giuseppe De Marzo, sono in questo senso un autentico modello giuridico. Il presupposto di tale riconoscimento si basa, in realtà, su quella sfera pregiuridica che logicamente precede e fonda ogni norma, come spiega lo storico Massimo Angelini: “perché la sussistenza comunitaria e di qualunque formazione sociale è presupposto logico di ogni norma che ne regoli il funzionamento”. Un discorso analogo vale per la libera fruibilità del patrimonio scientifico, che andrebbe difeso contro le logiche aziendali dei brevetti biotecnologici, di cui parla Gianni Tamino, docente di Biologia dell'Università di Padova.
Se le buone teorie documentano l'urgenza del riconoscimento dei beni comuni, la seconda parte del volume, interamente dedicata alle buone pratiche, mostra che un cambiamento nelle abitudini e nei costumi è già attivo in determinati settori della società e può essere utilmente preso a modello. È il caso dei Comuni virtuosi, di cui parlano Eugenio Baronti, consigliere comunale di Capannori e Nadia Carestiato, docente di Geografia dell'Università di Udine; della rete dei Gas (Gruppi di acquisto solidale) e Des (Distretti di economia solidale), descritti da Davide Biolghini, membro del Tavolo-Res (Rete di economia solidale); del Software libero illustrato dallo studente di Fisica Filippo Zolesi, della campagna referendaria sull'acqua, analizzata da Emilio Molinari, tra i fondatori del movimento dell'acqua; dei presidi valsusini contro l'alta velocità Torino-Lione, ricordati dalla scrittrice Chiara Sasso e dalle attività didattiche portate avanti dal Laboratorio Verlan.
In ultima analisi La società dei beni comuni profila con efficacia il quadro teorico e paradigmatico necessario per prendere coscienza dell'intreccio, oggi più che mai evidente, fra crisi ambientale, economica e politica. La via maestra per reagire a questo stato di cose passa, in primo luogo, per una radicale conversione culturale, sicuramente individuale prima che collettiva, perché, come scrive Ugo Mattei, docente di diritto civile all'Università di Torino, la coscienza da acquisire riguarda il modo proprio di ognuno di percepire la realtà: “per raggiungere la consapevolezza del bene comune occorre una trasformazione del soggetto, una rivoluzione nei suoi apparati motivazionali, una visione del mondo autenticamente rivoluzionaria. Mentre la logica del marketing (o della propaganda) produce motivazioni allineate alla produzione di ideologia dominante riduttivista e incentrata sullo statu quo, quella del sapere critico di base produce la trasformazione qualitativa essenziale per la stessa percezione dei beni comuni”.
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