Riprodotto per concessione dell'autore
Dal blog di Andrea Strozzi su Il Fatto Quotidiano
“Questa azienda tutela e promuove il valore delle risorse umane allo scopo di migliorare e accrescere il patrimonio e la competitività delle competenze possedute da ciascun collaboratore. […] È assicurato il coinvolgimento dei collaboratori nello svolgimento del lavoro, anche prevedendo momenti di partecipazione a discussioni e decisioni funzionali alla realizzazione degli obiettivi aziendali.”
Queste righe provengono dal codice etico di Enel e, affiancate alle recenti dichiarazioni del suo Ad Francesco Starace, assolutizzano in modo esemplare la totale ipocrisia e inutilità di tutta quell’informativa aziendale che, sotto il nome di “Responsabilità Sociale d’Impresa”, comprende i bilanci di sostenibilità, i bilanci di missione, le carte d’integrità, le carte dei valori e tutta quell’attività di disclosure gestionale di cui le imprese fanno sfoggio per camuffare le pratiche, molto spesso vergognose, che invece adottano nella quotidianità. Pratiche gestionali che, per chi tendesse a scordarselo, non sono mai orientate alla tutela del capitale sociale nelle sue molteplici forme (umano, ambientale, relazionale), ma sono esclusivamente finalizzate a “tutelare” la bottom-line del proprio conto economico: l’utile netto d’esercizio.
Quando avevo anch’io il mio bel posto fisso salariato, caro Francesco, lavoravo in staff al board di un gruppo aziendale piuttosto grande. Negli anni mi sono quindi interfacciato con persone che viaggiavano sulla tua lunghezza d’onda. Questo, solo per dirti che conosco il genere. Conosco i criteri che intimamente vi muovono. So di che pasta siete fatti. E conoscere questa pasta, averla per anni manipolata, gestita, lusingata, in qualche modo sedotta, è una prerogativa di cui non so più se vantarmi o vergognarmi. Un mattina del 2014 – come qualcuno sa – l’ho ripudiata, decidendo di punto in bianco di non ripresentarmi in ufficio, assumendomi i rischi di questo voltafaccia e cominciando a lavorare per la divulgazione di una prospettiva diversa, esattamente agli antipodi. Ma oggi, a distanza di un paio d’anni, e vedendo come quella mia scelta abbia puntualmente anticipato la progressiva e irreversibile degenerazione del mercato del lavoro e delle sue condizioni, posso dire di andarne fiero.
Quando scopro, interrogando i database online di Oecd, che nel nuovo millennio l’incremento medio annuo del consumo di psicofarmaci nelle economie cosiddette “sviluppate” è stato del +5,8% (+6,7% medio annuo in Italia e +7,4% in Germania), e che tale dinamica è visibilmente correlata all’incremento medio annuo del Pil, mi rendo definitivamente conto che è stato scavato un gigantesco fosso. Come argomento nel mio ultimo libro scritto insieme a Paolo Ermani, da un lato c’è chi, astutamente manipolato da giocolieri come voi e pagandone a caro prezzo le conseguenze, conserva una fede incrollabile nelle prescrizioni post-illuministiche del libero mercato; dall’altro lato c’è invece chi, contro tutto e contro tutti, sta attivamente impegnandosi per provare a tracciare una rotta diversa.
Per tutto questo ti sono sinceramente grato, Francesco. Ti sono riconoscente, perché la tua intervista alla Luiss, nella sua imperiosa ingenuità, ha certificato l’esistenza dell’abisso che vi separa dalle persone comuni. Già il fatto di essere arrivato a quei livelli dimostra ai miei occhi la preoccupante assenza dei valori umani funzionali ad una vita in armonia con gli altri: per occupare un qualsiasi ruolo di coordinamento, non necessariamente di vertice, sono infatti previste attitudini professionali che si sbarazzino di molte sensibilità relazionali, per sostituirle con l’imperativo categorico della produttività. La gestione delle risorse va infatti sempre ottimizzata per ottenerne il massimo ritorno possibile (a maggior ragione in questa fase storica contraddistinta da rendimenti marginali decrescenti).
Che si tratti di risorse materiali od umane, poco importa: su di esse si riverserà comunque la schizofrenia manageriale dei vertici aziendali che, sebbene addolcita dagli zuccherini dei sistemi incentivanti, è esclusivamente e dogmaticamente orientata al profitto. Mai a un autentico benessere. Se poi queste attitudini dovessero configgere con l’immagine che della propria azienda si dà all’esterno, ecco appunto venirvi in soccorso l’informativa di cui dicevo prima. Il green-washing serve esattamente a questo: a tingere di verde-speranza ciò che molto spesso è rosso-sangue. Salvo, naturalmente, provvidenziali bucce di banana come quella su cui sei scivolato tu. Caro Francesco, tu nel 2015 hai avuto una remunerazione di 2.752.000 euro ed io, in base alla (sub)cultura oggi dominante, dovrei invidiarti. Venerdì mattina, dopo averti ascoltato sul web, mi è venuta voglia di farmi un giretto in bici di una ventina di chilometri con mia figlia. E… l’ho fatto. La sai una cosa? Sei tu che devi invidiare me.