di
Francesco Bevilacqua
04-04-2011
Nel mondo del lavoro sono tante le tragedie sommerse di cui si sente parlare troppo poco. Una delle più drammatiche è quella che si è consumata nella Valcamonica negli anni Cinquanta, i cui segni si vedono ancora oggi: lo sterminio compiuto dalla silicosi, una malattia polmonare causata dall'inalazione di biossido di silicio, il killer delle miniere.
La silicosi è una pneumoconiosi, ovvero una malattia polmonare generata dall’inalazione di polvere. Nel caso di questa patologia, si tratta di biossido di silicio. La pericolosità dipende dalla quantità inalata e dalla durata nel tempo dell’esposizione, le cause di morte più frequenti associate alla malattia sono tubercolosi, insufficienza respiratoria e scompenso cardiaco.
Questa è una breve e fredda analisi medica di un killer che si è aggirato per anni, protetto e non visto, nell’ombra delle miniere e degli scavi italiani e non solo.
Ma c’è un luogo che ha pagato un tributo particolarmente oneroso in termini di vite umane e di devastazione del tessuto sociale, il cui travaglio è iniziato nell’immediato dopoguerra con conseguenze che si vedono ancora oggi. Si tratta della Valcamonica, piacevole località della Lombardia orientale attraversata dal fiume Oglio.
A partire dal 1948, la valle è stata designata per diventare uno dei più grandi poli idroelettrici d’Italia, data la sua conformazione geografica particolarmente favorevole. Intuito il business, i giganti dell’energia e della costruzione di infrastrutture, Edison in testa, si sono buttati a capofitto nell’impresa, colonizzando la valle camuna e scombinandone gli equilibri sociali ed economici, fino ad allora tranquillamente adagiati sull’agricoltura e sulla pastorizia.
Era quello l’inizio dell’industrializzazione della zona e dell’incubo della silicosi; le proteste da parte dei valligiani – maldestramente capeggiate da CGIL e CISL, più impegnate a litigare fra di loro che a tutelare i lavoratori – che pochi anni prima erano dovute alla richiesta di lavoro, si trasformarono ben presto in rivendicazioni di sicurezza durante lo svolgimento delle proprie mansioni, non solo per incidenti 'operativi' ma anche e soprattutto per la crescente paura di quella terribile malattia che colpiva i polmoni non solo dei minatori che passavano giornate intere in galleria, ma anche dei lavoratori edili o dei trasportatori che facevano solo visite saltuarie ai siti contaminati.
Gli apparati di sicurezza venivano costruiti per rispettare le leggi in materia, ma erano poi lasciati spenti, inattivi e quindi inutili.
Il canale Sonico-Cedegolo, il serbatoio del Pantano d’Avio e la condotta forzata Esine-Pisogne erano le principali opere portate avanti nell’ambito del progetto di Edison, che ha reso oggi la Valcamonica un immenso distretto idroelettrico, pesantemente segnato da tutte le infrastrutture che questo tipo di centrali si porta dietro: dighe, scavi, condotti, cisterne e quant’altro. Non solo il danno sociale e demografico quindi, ma anche lo sconvolgimento degli equilibri ambientali e paesaggistici dell’area, con corsi d’acqua deviati, crinali sbancati e bacini artificiali.
Ma il dato più doloroso di tutta questa vicenda è quello che effettua il pietoso conteggio delle vite che sono state sacrificate. Dall’avvio dei lavori ai primi anni sessanta, in una quindicina di anni scarsi, sono circa ottocento i morti che la 'polvere' ha mietuto nei piccoli paesini della valle. Alcune località hanno pagato un prezzo salatissimo, soprattutto se confrontato alla popolazione totale; per esempio ad Artogne i morti furono una novantina su duemilacinquecento abitanti complessivi. Intere famiglie distrutte, alcune delle quali videro due intere generazioni cadere vittime del biossido di silicio, un uccisore implacabile: il 70% dei malati di silicosi andò infatti incontro alla morte.
Si tratta dell’ennesima tragedia silenziosa che si consuma nell’Italia del lavoro e i casi di lieto fine grazie a risarcimenti e vitalizi – se lieto può poi essere definito l’epilogo di una storia in cui si perde un proprio caro – sono ancora molto rari. L’ultimo in ordine di tempo è quello di una vedova della Val Germanasca a cui il giudice ha riconosciuto il diritto di usufruire di un vitalizio da parte dell’INAIL dopo aver perso il marito, morto di silicosi nel 2006.
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