di
Francesco Bevilacqua
20-04-2012
C'è una connessione tra la preoccupante escalation di suicidi commessi e le gravi difficoltà economiche in cui versa una fascia consistente della popolazione. Un altro dato che rivendica l'urgenza di cambiamenti radicali all'interno del nostro sistema economico. Le politiche di governo però, stanno andando in tutt'altra direzione.
Giuseppe, artigiano. Vincenzo, commerciante. Ivano, falegname. Nunzia, pensionata. Vittorio, muratore. Roberto, imprenditore. E il triste elenco potrebbe proseguire a lungo, fino a superare i ventitré nomi, se confrontiamo i dati diffusi dalla CGIA di Mestre. Tanti infatti sono, secondo l’associazione di categoria veneta, i piccoli imprenditori che si sono tolti la vita in questi primi tre mesi del 2012, stritolati da una situazione economica che non riuscivano ad affrontare.
Ad essi si aggiungono altre categorie, dagli operai ai pensionati, come la donna di Gela che si è gettata dal balcone dopo essersi vista decurtare 200 euro dalla pensione o il settantaquattrenne che a Bari è andato incontro alla stessa sorte a seguito di una richiesta di restituzione di 5000 euro da parte dell’INPS. Secondo i dati ISTAT più recenti, le persone che si sono tolte la vita per motivi economici e finanziari sono state, nel 2010, 187. Una piccola diminuzione rispetto al dato dell’anno precedente, a cui fa però da contrappeso l’aumento dei tentativi di suicidio, 245 in totale.
Il colorito intervento di Di Pietro, che ha imputato la responsabilità morale di questo drammatico trend al premier Monti e al suo Governo, appare come un mero sfogo con tutti i connotati di un attacco politico, soprattutto nel passaggio in cui viene evidenziata la continuità con la linea del Governo Berlusconi. Non si può tuttavia addossare ai singoli rappresentanti istituzionali, né alle manovre finanziarie specifiche, la responsabilità della situazione. Essi hanno la colpa oggettiva di rendere esecutive le caratteristiche strutturali di un sistema economico e sociale, quello fondato sul debito, che è oramai diventato assolutamente insostenibile.
Per anni il mondo imprenditoriale e dei risparmiatori privati è stato abituato a mantenere un tenore di vita ben al di sopra delle possibilità che l’economia reale consentiva, semplicemente accedendo a crediti e finanziamenti con estrema disinvoltura: l’importanza di far crescere i consumi, soprattutto quelli superflui, era prioritaria rispetto ai problemi che l’insolvenza di debitori poco affidabili avrebbe potuto causare. Oggi i rubinetti sono stati improvvisamente chiusi, cambiando la situazione in maniera repentina e radicale. Come confermano i dati ISTAT, le imprese che sono riuscite ad accedere al credito nel 2010 sono state il 78,6% di quelle che ne hanno fatto richiesta, quasi il 10% in meno rispetto allo stesso dato riferito al 2007.
In pratica – e questo si evince drammaticamente dai comportamenti, anche estremi, di imprenditori e risparmiatori – le banche non concedono più prestiti. Proprio per questo è aumentata anche la percentuale di coloro che hanno provato a rivolgersi ad altri soggetti per ottenere credito, che sono più che raddoppiati: dal 17% del 2007 al 35% del 2010.
Difficoltà, queste, che spianano la strada a forme ancora più perverse di accesso al credito: secondo l’Associazione Contribuenti Italiani infatti, fra il 2010 e il 2011 sono aumentate del 217% le famiglie in una situazione di sovraindebitamento e del 148% i casi di usura; sono più di tre milioni le famiglie considerate a rischio. Le rilevazioni della Banca d’Italia relative al secondo trimestre 2012 riportano tassi d’interesse usurari che, a seconda della tipologia di operazione, arrivano al 22%, a fronte di valori massimi dei tassi medi intorno al 14%.
In questo quadro, come è possibile valutare l’operato del team di Monti? Fra chi accusa il “governo delle banche” di favorire istituti di credito e grandi multinazionali e chi accoglie con favore la semplificazione delle procedure per l’avviamento d’impresa e per l’aiuto alle aziende in difficoltà, il giudizio non è unanime. Sicuramente sono state accolte, almeno in parte, le pressioni provenienti dalle lobby finanziarie, come testimonia il corposo aiuto destinato agli enti creditizi, dalla garanzia statale sulla passività delle banche italiane prevista dall’articolo 8, al limite dei 1000 euro ai pagamenti in contanti, con conseguente aumento delle operazioni di valuta virtuale.
Agevolazioni addizionali per l’assunzione di donne e under 35, 1,2 miliardi per rifinanziare il fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, la riduzione riguardante gli oneri amministrativi concessi dall’articolo 40, sembrano invece andare nella direzione della concessione di un aiuto ai soggetti più deboli dell’economia italiana.
Ma cos’hanno in comune questi due gruppi di provvedimenti? È presto detto: entrambi hanno l’obiettivo di ripristinare le condizioni su cui si basa il sistema appena andato in crisi. Obiettivo che da un lato va perseguito attraverso il restauro della funzionalità dei principali artefici della virtualizzazione dell’economia – le banche – e del meccanismo del debito, mentre dall’altro passa necessariamente dal rilancio dei consumi e quindi delle produzioni. Emblematico in questo senso è il provvedimento riguardante le liberalizzazioni, che non ha altro scopo se non quello di incoraggiare gli italiani ad abbracciare nuovamente quello stile di consumo sfrenato e sproporzionato rispetto alle possibilità reali – ma non a quelle virtuali – della loro situazione economica.
Naturalmente va individuata una soluzione intermedia: le drammatiche e urgenti difficoltà in cui versano milioni di italiani, i cui problemi economici spesso fanno intravvedere il 31 del mese come un miraggio, non possono aspettare il tempo necessario a un passaggio indolore dal sistema del debito a uno più sostenibile, che torni a basarsi sui beni reali. È però altrettanto vero che tale sistema si è già dimostrato insostenibile e – così come accadrà presto o tardi anche in altri ambiti, da quello energetico a quello ambientale – è necessario avviare il prima possibile una transizione consapevole e condivisa.
Diversamente dovremo rassegnarci a un violento collasso che, purtroppo, coinvolgerà non solo la parte marcia del mondo socioeconomico italiano, ma anche quella più sana, rappresentata dai piccoli risparmiatori, dagli artigiani, dai dipendenti e dagli onesti lavoratori che, loro malgrado, sono costretti sempre più spesso a recitare il ruolo delle vittime. Ormai si tratta di una questione di vita o di morte e non più solo in senso metaforico.
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