di
Francesco Bevilacqua
02-05-2012
Debito pubblico, crisi greca, tassi d’interesse, creazione del denaro, sovranità economica. Nel suo Sull’orlo del baratro, da pochi giorni in libreria, lo scrittore francese Alain de Benoist analizza attraverso tutte queste variabili la situazione economica europea e globale.
È uscito da pochi giorni nelle librerie Sull’orlo del baratro, l’ultimo lavoro dell’autore francese Alain de Benoist. Pensatore decisamente anticonformista, da sempre vicino ai temi della decrescita, del comunitarismo e fortemente critico nei confronti del sistema socioeconomico fondato sui postulati del liberal-capitalismo, de Benoist non si è astenuto da una puntuale analisi sulla crisi dell’euro in atto, alla quale fa da sfondo un più ampio collasso del sistema-Europa.
L’autore transalpino è stato recentemente in Italia per presentare il suo libro e per partecipare alla trasmissione di La7 L’infedele, dedicata alla crisi finanziaria europea. La sua disamina parte da un’inquietante previsione: la recessione iniziata nel 2008 è ben lungi dal risolversi e, alla fine, i suoi effetti saranno più devastanti del crack del 1929. La prima fase è stata caratterizzata da un deciso processo di virtualizzazione dell’economia e dalla scomparsa, di fatto, dell’economia reale. Questo è stato possibile grazie all’esplosione del debito privato.
La seconda fase, che stiamo attraversando oggi, ha visto spostarsi il problema sul debito pubblico: quello dell’eurozona è aumentato del 27% negli ultimi quattro anni e oggi sono ben otto i paesi membri il cui rapporto fra debito e PIL supera l’80%. Una situazione che, conti alla mano, è più grave di quella che ha immediatamente seguito la Seconda Guerra Mondiale.
De Benoist prosegue con una breve analisi del proprio paese, la Francia, impegnata fra l’altro in un delicato passaggio elettorale. Lì, il deficit è aumentato del 30% negli ultimi quattro anni e, se nel 1979 rappresentava solo il 2% del Pil, oggi è arrivato all’8,4%, a cui vanno aggiunti gli investimenti del 2011, già effettuati ma non ancora conteggiati. In questo perverso meccanismo, l’aspetto più critico è quello relativo agli interessi sul debito, che rappresentano un fardello che grava oggi e graverà in futuro sulle generazioni a venire, determinando la perdita della sovranità economica da parte dello Stato e quindi del popolo.
L’analisi prosegue volgendo uno sguardo più generico alla crisi del debito: il passaggio dal pubblico a quello privato è avvenuto con i mastodontici piani di salvataggio che i Governi – inglese, americano e altri – hanno dovuto approntare per soccorrere le numerose banche private che hanno rischiato il default fra il 2008 e il 2009. A questo scopo, fra il 2008 e il 2010 le banche centrali hanno iniettato 500 miliardi di dollari nell’economia mondiale.
Come un cane che si morde la coda, la situazione finanziaria degli Stati nazione ha cominciato a peggiorare: le entrate diminuivano e i prestiti aumentavano, secondo i meccanismi della politica di deregolamentazione che fu inaugurata negli anni ottanta dai governi Reagan e Thatcher e che per tre decenni è stata alimentata dalle lobby finanziarie internazionali. Così, il capitale è uscito dalla sfera produttiva sganciandosi dall’economia reale, i salari si sono abbassati, le barriere doganali sono state progressivamente eliminate, i prezzi hanno perso stabilità.
Le conseguenze? Delocalizzazione, deindustrializzazione con conseguente disoccupazione, fuga di capitali, precarizzazione del lavoro. Si è così consolidato un sistema socioeconomico caratterizzato da una profonda disuguaglianza, in cui la ricchezza è destinata alla fetta più sottile, già benestante, della popolazione mondiale.
Da alcuni anni è in atto un’accesa guerra finanziaria, che vede gli speculatori contrapposti agli Stati nazionali. Arbitri di questa contesa sono le agenzie di rating – le tre principali dominano il 90% del settore. Si tratta però di giudici tanto influenti quanto parziali: non sono indipendenti, bensì strettamente legate alle banche private, nonostante i prodotti che devono valutare siano emessi proprio da queste ultime. Inoltre, il potere che le agenzie esercitano nei confronti degli Stati è enorme, poiché esse hanno il compito di valutare la solvibilità dei prestiti.
Ancora più perverso è il meccanismo di finanziamento delle operazioni di acquisto del debito pubblico, oggi in buona parte posseduto dalle banche private. Queste ultime hanno infatti prestato denaro ai governi a tassi di mercato, prendendolo però a loro volta dalle banche centrali a condizioni estremamente favorevoli. In Europa, la differenza dei tassi dei prestiti fra banche private e BCE e fra banche private e stati membri è enorme: l’1% nel primo caso, il 7% nel secondo. In questo modo gli Stati diventano volontariamente debitori degli istituti privati, ponendosi in loro potere.
I regolamenti internazionali aggravano ulteriormente la situazione: per gli Stati i prestiti a lungo termine sono gravati da tassi d’interesse insostenibili; gli unici organismi che concedono tassi più contenuti sono FMI e BCE, ma la contropartita da pagare è pesantissima e consiste nell’applicazione di rigide misure di politica economica. In questo consiste l’austerity, che provoca però la diminuzione dei redditi, quindi la deflazione e, come conseguenza finale, il blocco della crescita economica. È la “strategia dello shock”: aumentano le tasse, diminuisce la spesa pubblica, vengono tagliati i servizi. In tutti i paesi che subiscono questa imposizione si verifica quindi un passaggio di sovranità, che dal popolo si trasferisce ai creditori privati.
Il rischio, che al contrario potrebbe essere interpretato come l’unica via d’uscita, è che la base reagisca: rivolte popolari contro l’austerità o decise prese di posizione dei governi finalizzate al ripudio del debito sono le opzioni. In questo senso, ciò che sta accadendo in questi mesi in Grecia non è che un’anticipazione di quanto potrebbe succedere in futuro in molti dei paesi europei, fra cui anche l’Italia. A trovarsi in pericolo è lo stesso euro: per la Grecia, così come per gli altri Stati, si tratta solo di una trappola che ha l’unico effetto di bloccare le esportazioni.
Inoltre, gli aggiustamenti di politica economica non possono più appoggiarsi alla svalutazione della moneta nazionale e devono quindi colpire i prestiti e l’occupazione. In questa tragica situazione è il patrimonio fisico del paese a rischiare di scomparire o meglio di essere svenduto; per esempio per la Grecia la contropartita per gli aiuti ricevuti è stata una robusta campagna di privatizzazioni. Diminuzione del numero dei dipendenti pubblici, tagli sociali e alla sanità, stipendi dimezzati sono le altre misure di austerità imposte. Così facendo però si rinvia solo una scadenza inevitabile, la malattia non può essere curata con le stesse cause che l’hanno generata. Nel caso della Grecia, l’unica alternativa al collasso completo è l’uscita dall’euro.
In Europa, così come nel paese ellenico, le uniche vittime della politica dell’austerità saranno le classi popolari e medie. Non ci saranno effetti risolutivi, poiché, molto semplicemente, nessun paese all’oggi è in grado di rimborsare il proprio debito. Il dubbio che cominciano a porsi molti è ancora più preoccupante: cosa succederà quando Stati estremamente potenti dal punto di vista geopolitico – gli Stati Uniti tanto per non fare nomi – si troveranno insolventi? Quanto ci vorrà prima che il conflitto si sposti dal piano finanziario a quello militare?
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