In molti casi i sussidi pubblici a sostegno di progetti produttivi e di 'sviluppo' determinano effetti collaterali sull'ambiente. Sono gli EHS, Environmentally harmful subsidies, più volte oggetto di tentativi di revisione e ora sotto la lente della Commissione Ambiente del Parlamento europeo, che mette sotto accusa gli aiuti comunitari.
Il problema degli EHS è noto da tempo agli organismi governativi e non: la Commissione Mondiale per l'Ambiente e lo Sviluppo ne segnalava i rischi già nel 1987 con il rapporto Brundtland.
Il dibattito è aperto anche all'interno dell'Unione europea, dal momento che anche i sussidi comunitari possono provocare effetti ambientali indesiderati o comunque sostenere investimenti in conflitto con gli obiettivi di contrasto al cambiamento climatico e di tutela delle risorse e della biodiversità.
Da una parte, infatti, il meccanismo dei sussidi tende a stimolare l'aumento della produzione da parte dei beneficiari e ad avvalorare processi produttivi non sostenibili, sia sotto il punto di vista economico, perché dipendenti dalle sovvenzioni pubbliche, che sotto il profilo ambientale, in quanto si traducono in uno sfruttamento eccessivo delle risorse naturali e nella messa ai margini delle pratiche meno intensive.
Dall'altra solo una piccola porzione degli incentivi è destinata espressamente a favorire la difesa dell'ambiente e generalmente le attività finanziate confermano modelli economici tradizionali, che nulla hanno a che vedere con gli obiettivi politici europei.
Un recente rapporto della Commissione Ambiente del Parlamento europeo, dal titolo EU Subsidies for polluting and unsustainable practices, ha cercato di analizzare il modo in cui vengono spesi gli aiuti pubblici nei settori che più sono coperti dai sussidi comunitari e le ricadute ambientali sperimentate in ciascun caso.
Le attività economiche scelte sono: agricoltura, fondi strutturali e di coesione (quindi i fondi per lo sviluppo delle regioni europee e per una maggiore convergenza tra loro), trasporti, energia e pesca.
Per quanto riguarda l'agricoltura, la relazione evidenzia come l'attuale regime di pagamento tenda a supportare i produttori con pratiche più intensive, anziché distribuire le risorse tra le piccole unità agricole e promuovere i benefici ambientali generati dall'agricoltura tradizionale. In questo modo, i fondi stanziati - che per il solo 2011 ammontano complessivamente a 56,9 miliardi di euro - finiscono per incentivare una delle pratiche maggiormente inquinanti.
Anche i progetti finanziati a valere sui fondi strutturali e di coesione dell'UE confermano generalmente il paradigma tradizionale, per cui si investe nello sviluppo infrastrutturale provocando una pressione crescente sull'ambiente. Tra le prassi più dannose figura anche il sostegno all'incenerimento dei rifiuti, che inibisce la creazione di una filiera europea del riciclaggio e del compostaggio.
Sul fronte della mobilità, le risorse UE tendono a essere destinate al trasporto su gomma, che assorbe da solo il 49% degli aiuti complessivi, mentre alla promozione di modalità di spostamento sostenibili va un misero 7%.
Le cifre scendono ulteriormente in materia di energia: solo il 2,6 del budget complessivo viene destinato alle fonti rinnovabili.
Infine la pesca: il rapporto registra un sostanziale fallimento dell'Unione europea nel tentativo di allineare l'erogazione degli aiuti allo stato degli stock ittici e al rispetto delle regole per il settore. La conclusione è che sino a quando non si introdurrà un meccanismo per “calibrare la capacità di pesca con la possibilità di pesca” e con i piani di recupero delle specie minacciate di scomparsa, l'attività ittica in Europa continuerà ad avere effetti nocivi.
Il rapporto chiede di avviare una consultazione a livello comunitario per procedere ad una riforma complessiva del sistema. In caso contrario i piani e le strategie sviluppate negli ultimi anni dalla Commissione europea in difesa dell'ambiente continueranno ad essere ostacolati dai suoi stessi programmi di finanziamento. Un sabotaggio dall'interno.
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