di
Laura Pavesi
17-04-2013
“È finita”: è questo l'amaro commento delle associazioni tarantine che hanno promosso il referendum, alla notizia che la famiglia Riva ha già separato l'ILVA dal resto del gruppo industriale e finanziario. A Taranto, oggi, restano solo i laminati piani a freddo e a caldo e un deficit milionario: è il primo passo verso la dichiarazione di fallimento?
È trapelata solo ieri la notizia che, già da tempo, i Riva hanno separato l'ILVA di Taranto dal resto del gruppo industriale e finanziario. Oggi l'ILVA si trova, di fatto, isolata - soprattutto dal punto di vista finanziario - rispetto al resto del gruppo.
Tra il 26 luglio 2012 e il 7 gennaio 2013, attraverso una serie di atti societari e straordinarie operazioni (notarili), i Riva hanno isolato l'ILVA e fatto in modo di poter disporre liberamente e proteggere il resto del gruppo industriale e finanziario, qualsiasi cosa succeda in futuro agli impianti tarantini.
Prima del 26 luglio 2012 – il giorno in cui sono scattati il sequestro degli impianti dell'ILVA e le misure cautelari dei vertici aziendali per “disastro ambientale” disposte dalla Magistratura tarantina - il business industriale dei Riva dipendeva, per circa due terzi, proprio dall'ILVA.
Ma, rende noto il Sole24Ore, “in pochi sanno che, proprio quello stesso giorno, il 26 luglio 2012, nelle stanze di uno studio notarile lussemburghese, prende il via il progetto di fusione fra due delle società estere che stanno sopra il gruppo italiano: Parfinex SA e Stahlbeteiligungen Holding SA. Razionalizzazione prevista da tempo? La coincidenza della data è casuale?”.
Le date, in questa vicenda, sono importanti e quasi sorprendenti: tra il 26 luglio 2012 e il 7 gennaio 2013 (cioè 4 giorni prima che il Consiglio dei Ministri nominasse il Commissario per le bonifiche ILVA, Alfio Pini, e il Garante per l'AIA-ILVA, Vitaliano Esposito) attraverso una serie di atti societari formali l'ILVA viene progressivamente scorporata dal gruppo Riva. Ma le notizie filtrano solo adesso.
Il primo commento a caldo è di Alessandro Marescotti, tra i promotori del referendum di domenica scorsa, nonché fondatore e presidente di “Peacelink”. Il suo giudizio è amaro e categorico: “È finita”. Secondo Marescotti, infatti, grazie alla ristrutturazione del gruppo operata dalla famiglia Riva, il destino dell'ILVA appare segnato: si va verso la dismissione e la chiusura dell'acciaieria o, nella peggiore delle ipotesi, al fallimento.
A questo punto, non c'è tempo da perdere: “Prima che affondi” dichiara Marescotti, “occorre preparare le scialuppe di salvataggio per i lavoratori. Ma i dirigenti sindacali confederali fanno finta di non vedere che la nave affonda. Vivono sul Titanic, senza alcuna consapevolezza e senza preparare il piano B”.
E sottoscrive, ancora una volta, tutto ciò che aveva dichiarato all'indomani del referendum: “Quello che è decisivo nella nostra lotta è avere una strategia chiara. E per me è chiarissima. Ilva chiuderà: non ha un piano industriale. E la nostra preoccupazione deve essere quella di evitare che avvenga come a Brescia (il “caso Caffaro”, oggetto di una recente inchiesta di Report-n.d.a.): chiusura senza risarcimento e senza bonifica dei terreni e della falda acquifera. Il vero problema non è chiudere l'Ilva (chiuderà di sicuro) ma è di traghettare i lavoratori in sicurezza verso un piano di bonifiche: da fare presto e possibilmente subito. Prima che sia troppo tardi, prima che l'ILVA dichiari fallimento”.
Come dargli torto? I fatti e le date parlano chiaro. Ma vediamoli insieme, con ordine.
Fino al 26 luglio 2012, dicevamo, il business dei Riva dipendeva per i due terzi proprio dall'ILVA. Quel giorno, Emilio Riva, il figlio Nicola e 6 dirigenti, tra i quali anche il Presidente Bruno Ferrante, finiscono agli arresti domiciliari e l'acciaieria viene affidata ai custodi giudiziali. Quello stesso giorno parte la fusione fra due delle società estere che stanno sopra il gruppo italiano: la Parfinex SA e la Stahlbeteiligungen Holding SA.
Nel frattempo, mentre il 2 agosto 2012 scatta la manifestazione sindacale indetta da Cisl, Cgil e Uil (2 agosto 2012), la famiglia Riva, insieme a notai e commercialisti di fiducia, continua la ristrutturazione delle società del gruppo, sia italiane che lussemburghesi.
All'epoca, il 25,38% dell'ILVA era ancora detenuto dalla Stahlbeteiligungen Holding SA con sede in Lussembrgo, ma, sempre secondo il Sole24Ore, il 5 ottobre 2012 questa quota viene scorporata dalla Stahlbeteiligungen Holding S.A e conferita alla Siderlux, che è posseduta al 100% da Riva Fire. A questo punto, l'ILVA di Taranto appartiene – come quote maggioritarie - per il 61,62% a Riva Fire e per il 25,38% a Siderlux.
I Riva non si fermano e lasciano alla Stahlbeteiligungen SA consistenti pacchetti azionari delle acciaierie ubicate in Canada, Belgio, Spagna, Germania e Francia. Detto in poche parole, alla Stahlbeteiligungen SA restano soprattutto le azioni delle attività industriali estere e dal minoritario pacchetto azionario italiano sparisce completamente l'ILVA.
Il 26 ottobre 2012, il Governo rilascia l'AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) e la famiglia Riva si rende disponibile a fare il risanamento previsto dalla magistratura, investendo una prima tranche di 400 milioni di euro. Queste risorse, però, sono solo un decimo di quelle stimate dai Carabinieri del NOE (cioè 4 miliardi di euro) e sono da trovare all'interno dell'ILVA. Peccato che, essendo l'ILVA ormai scorporata dalla Stahlbeteiligungen SA, non possa più contare sulla “cassaforte” lussemburghese.
Un mese dopo, il 26 novembre 2012, la magistratura sequestra 1,7 milioni di tonnellate di merce già prodotta, impedendone la commercializzazione. Questo mette in ulteriore difficoltà economiche l'acciaieria tarantina, ma la ristrutturazione societaria del gruppo Riva subisce un'accelerazione.
Il 19 dicembre 2012, infatti, la Riva Fire (quella che controlla l'ILVA al 100%) cede alla Riva Forni Elettrici (che ha stabilimenti a Caronno Pertusella, in provincia di Varese, e a Lesegno, in provincia di Cuneo) il ramo aziendale che produce e commercializza i prodotti lunghi, insieme a riserve pari 320,6 milioni di euro. In questo modo, alla Riva Fire restano i laminati piani a freddo e a caldo e un “buco” di 320 milioni.
Il 24 dicembre 2012 viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la Legge 231/12 (cioè la conversione in Legge del cosiddetto "Decreto Salva-Ilva") con la quale il Governo autorizza tutti i grandi siti industriali di interesse strategico nazionale a continuare a produrre, anche se gli impianti sono stati posti sotto sequestro dalla Magistratura. Ma ormai è tardi: le attività estere sono “blindate” in Stahlbeteiligungen SA, i prodotti lunghi sono passati alla Riva Forni Elettrici e all'ILVA di Taranto sono rimasti solo i laminati piani a freddo e a caldo e un deficit milionario.
L'11 gennaio 2013, infine, il Consiglio dei Ministri nomina il Commissario per le bonifiche dell'ILVA, Alfio Pini, e il Garante per l'AIA-ILVA, Vitaliano Esposito, ma solo quattro giorni prima – cioè il 7 gennaio 2013 – la lunga riorganizzazione delle attività italiane e dell'architettura societaria del gruppo Riva era stata ormai completata: l'ILVA di Taranto è già stata isolata dal tutto il resto.
“Una serie di operazioni straordinarie”, sottolinea il Sole24Ore, “che eliminano intrecci fra società e che soprattutto, sulla carta, rendono più facile disporre del gruppo o di parti di esso, di fatto isolando l'ILVA e provando a proteggere il resto del gruppo industriale e finanziario da ogni iniziativa giudiziaria”.
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