Il Comune di Roma aveva fatto sgomberare il Teatro Valle (quello che fu luogo di cultura in un edificio settecentesco a due passi dal Senato) nel 2014, dopo che per 3 anni un movimento di artisti e attivisti lo aveva fatto rivivere organizzandovi una vivace proposta culturale. Sabato 11 giugno quel movimento ha rioccupato il teatro, ma gli attivisti sono stati di nuovo cacciati dalla polizia. Ma quello che hanno detto lascia forse presagire una nuova fiamma di passione: «Oggi non è stata un'occupazione. Oggi è stata una boccata d'ossigeno in questa città dall'aria mefitica. Non ci fermerete. Le #luciinsala non sono spente!».
«Dall'agosto 2014 il Teatro Valle è chiuso - hanno detto gli artisti che lo hanno rioccupato sabato - Per il restauro non esiste ancora un progetto. I fondi non sono mai arrivati, i lavori non sono cominciati, la manutenzione non è stata fatta. Qui dove si sono sperimentate forme di partecipazione viva, da due anni il buio in sala non annuncia nessuna apertura di sipario. Di parole in questi anni ne sono state dette molte. Sulla gestione del Valle e degli spazi pubblici in genere. Sul sistema teatro in Italia. Sulla vita culturale della città. Sulla precarietà dei lavoratori dello spettacolo e della cultura. Niente di nuovo, da dire. Da fare invece, quello sì. C'è da affollare, da popolare uno spazio vuoto. C'è da animare dare corpo e respirare. Il Teatro Valle è un oggetto luminoso del desiderio. Oggi è di nuovo aperto: luci in sala! La città rientra. Per trasformare un vuoto in un pieno. Per riaccendere l’immaginazione. Nel tempo denso di un giorno. A Roma le politiche culturali e la progettualità artistica non sono mai state così disastrose. La volontà dell’amministrazione, e della sua successiva gestione commissariata, è stata quella di chiudere spazi piuttosto che aprirne di nuovi. Spazi fisici, ma anche spazi per sperimentare, partecipare, autogestire. O anche solamente per respirare. Roma è stata la cavia del governo Renzi: la retorica del bando e la consuetudine delle nomine dall’alto sono strumenti di istituzioni che funzionano come soggetto privato, riproducendo modelli di gestione distanti e fallimentari, se non corrotti. Anche in questa campagna elettorale la cultura non è stato un tema di discussione, a dimostrare che non si profilano alternative rispetto alle politiche vigenti. C’è bisogno di fantasia, per generare nuovi strumenti che sostengano l’esigenza e la capacità dei cittadini di organizzarsi, di prendersi cura dei propri spazi di vita. Nonostante questo deserto, la città ha prodotto e produce esperienze di sperimentazione e inclusione che è necessario moltiplicare. Dalle piazze francesi gli intermittenti e i movimenti europei ci chiamano a riprendere parola non solo sulle politiche culturali, ma sull’intera possibilità di vivere e praticare la città. Oggi è la giornata dei corpi fuori norma e dei desideri. Oggi non ci accontentiamo».
Sono amare le parole di Roberto Ciccarelli su Il Manifesto, per spiegare lo stato di abbandono in cui le istituzioni hanno lasciato il teatro:
«Hanno fatto un deserto, e lo chiamano ordine, decoro, legalità. Parole magiche usate per togliere la vita e ridurre uno spazio vivente, maestoso, aperto per sua natura ai cittadini e alle arti teatrali a un magazzino. Lo fanno cadere a pezzi, il Valle, piuttosto che lasciargli vivere il suo tempo con chi lo ama. E a chi chiede spiegazioni di questo abbandono, voluto dal Campidoglio, dal teatro di Roma e dal ministero dei beni culturali – unici colpevoli di questo disastro – mandano la polizia (ecco cosa è successo l’11 giugno 2016). Arroganti, violenti, oltre che incompetenti, ignoranti e inefficienti. E’ stata una vendetta contro migliaia e migliaia di cittadini che per tre anni hanno amato questo teatro e hanno pensato che sia possibile, in Italia, governarlo dandosi regole, attraverso strumenti che sviluppano la partecipazione collettiva e l’idea che l’arte è anche cooperazione, istruzione generale, sperimentazione di una forma di vita in comune. Era l’obiettivo di chi ha stilato, e condiviso, lo statuto della fondazione del teatro valle “Bene comune”: la prima sperimentazione di un’istituzione dell’autogoverno dei cittadini. Questa era l’anomalia da cancellare in un paese ridotto alla passività, alla miseria, alla rabbia e alla povertà. Ci sono riusciti».
Molto toccante anche quanto scritto da Ilenia Caleo e Roberto Ciccarelli per Opera Viva: «Il Teatro Valle è stata l’espressione di un pluralismo irriducibile generato da queste azioni. Era l’analogo, su scala molto diversa, dell’esperienza spagnola del movimento M15. In Spagna c’erano milioni di persone in piazza, in Italia no. Questa valutazione dev’essere tuttavia contestualizzata. La memoria infatti gioca brutti scherzi e tende a farsi condizionare dallo sconforto del momento. In Italia quel movimento che è emerso in Spagna, e che nel marzo 2016 è apparso in Francia nella lotta contro la riforma del lavoro dei socialisti, è partito prima di tutti. Tra il 2008 e il 2011 le piazze c’erano in Italia: erano l’opposizione di massa alle riforme della scuola e dell’università. È stato un movimento molto esteso e stratificato, in Italia e in Europa, che si è espresso in maniera folgorante anche nel voto del referendum per l’acqua pubblica del 13 giugno 2011. Il Valle fu occupato il giorno dopo e ne è stata una delle manifestazioni politiche. Il teatro usava le stesse parole: ha creato una nuova istituzione politica. Non si è limitato al momento esplosivo, ha iniziato a fare un difficile lavoro di profondità. Ci siamo avventurati in un territorio sconosciuto: l’invenzione di nuove forme del fare comune. Ha introdotto il tema della decisionalità e di dispositivi decisionali cittadini; ha proposto un sistema della partecipazione non come tecnologia partecipativa, ma come elemento sostanziale; ha interpretato i beni comuni non in termini astrattamente giuridici, ma come l’espressione delle pratiche del fare comune oltre le appartenenze e le identità, i partiti e gli status socio-professionali; ha permesso ad artisti e lavoratori dello spettacolo di riunirsi e confrontarsi sulle condizioni materiali del loro lavoro e sulle possibilità creative dell’autonomia».
«Il Teatro Valle rappresenta il rovescio della frammentazione della politica postmoderna: quella che distingue le campagne in base alle identità minori ed escluse. Ha rappresentato un’agorà dove si è creata, e ricreata, nel suo piccolo, nei suoi limiti, una formazione generale della vita in comune. Per questo è diventato un potente attrattore che ha creato linguaggio e immaginazione politica. E ha fatto sì che parlasse nel mondo, oltre il nostro mondo. Per tre anni si è creato un luogo vivo ed esemplare delle spinte alla trasformazione, sotto gli occhi di tutti, e non nelle zone d’ombra della città. Topograficamente e politicamente è stato un atto molto importante perché ha ribaltato la percezione. Non esiste un centro distinto dalla periferia. L’occupazione ha reso possibile cambiare e sovrapporre i confini».
«L’accesso al centro della città, come alla politica, non ha fatto più differenze tra giovani e anziani, occupati e disoccupati, artisti e cittadini, figli, genitori e nonni. Tutti potevano fare esperienza di una nuova centralità che aveva sia un significato urbanistico che una visibilità internazionale, mai vista prima di allora. Il Valle ha cambiato la divisione del lavoro, come i ritmi della veglia e del sonno nel luogo più visibile di Roma: a duecento metri dal Senato. Ha contraddetto e mostrato un’altra possibilità rispetto alla vita ordinaria di chi è messo al lavoro, giorno e notte, per avere un lavoro, un’identità, uno spazio in un mondo che si restringe».
«È stata riattualizzata una pratica del surrealismo: la poetica del sogno, una politica della reverie che ha creato una sospensione lunghissima, abolendone gli automatismi. Ha dimostrato la possibilità di un potere di creazione imprevedibile che le politiche urbane, il discorso politico egemonico, il capitalismo cercano di cancellare. Per 1.151 notti si è letteralmente sognato assieme. Questo sogno è molto materiale: ha permesso a soggettività neoliberali performative, ostaggi dell’idea di essere imprenditrici di se stesse, di uscire da sé. Mettersi in gioco in un processo molto distante da abitudini e ideologie, sospendere la normalità, creare nuove regole. Questo è il ruolo del teatro: un teatro della vita».
«La rimozione dell’esemplarità di questa esperienza si spiega anche con il fatto che del Valle non bisogna parlare, se non come una sala prestigiosa, un modo per aumentare gli ingressi del Teatro di Roma. In realtà, più che dell’occupazione, non bisogna parlare dell’imprevedibile che può essere generato dal deliberato e desiderante incontro tra le idee e le persone. Questo è il pericolo da esorcizzare con tutti i mezzi».