di
Francesco Bevilacqua
09-02-2012
Le pubblicazioni dell’Economist sono molto conosciute e considerate valide e autorevoli, incidendo quindi su opinioni e politiche internazionali. Scopriamo com’è strutturato questo colosso editoriale e quali sono i nomi di riferimento che lo mantengono in vita.
È stato recentemente pubblicato l’Indice di democrazia 2011, uno studio che analizza e valuta lo stato di democratizzazione delle nazioni del mondo e che ha fatto molto scalpore e stimolato un acceso dibattito. Ha realizzato il report l’Economist Intelligence Unit, organizzazione collegata al famoso settimanale The Economist, che è a sua volta una delle riviste di punta dell’Economist Group. Che complessa rete di relazioni!
E non finisce qui, perché i molti personaggi coinvolti in tale rete, a loro volta chiamano in causa ulteriori esperienze politiche, iniziative imprenditoriali, opinioni e analisi economiche che influenzano in maniera determinante le decisioni più importanti e che spesso, anche se sembrano quanto mai lontane, ci riguardano da vicino. In questa chiave, appare utile provare a districare il bandolo della matassa, a capire di che tipo di realtà si tratta, chi vi si cela dietro e quali sono le posizioni che sostiene. Partiremo dalla storia del celebre magazine per arrivare fino alle più recenti previsioni, in modo da conoscere meglio questo colosso dell’editoria economica.
The Economist
L’Economist è una delle riviste di economia e finanza più conosciute al mondo. Fu fondata a Londra nel 1843 dallo scozzese James Wilson, imprenditore, economista ed entusiasta sostenitore del liberismo. Una decina di anni dopo aver fondato l’Economist, Wilson fu protagonista di un’altra rilevante iniziativa: creò infatti la Chartered Bank di India, Australia e Cina, oggi Standard Chartered Bank, un colosso dei servizi finanziari con base in Inghilterra ma che opera principalmente nei paesi emergenti, in particolare in Africa, Asia e Medio Oriente.
Come detto, Wilson era un fervente liberista, tanto che in origine l’Economist fu concepito come giornale promozionale a sostegno delle ragioni del libero mercato. L’economista scozzese diresse la rivista e ne fu proprietario per sedici anni, ma ancora oggi l’impostazione è rimasta la medesima. Molto rilevante è stata la presidenza, durata dal 1972 al 1989, di Evelyn Rothschild, rappresentante della famiglia che dal 2007 detiene il controllo del giornale.
I Rothschild sono uno dei nomi più influenti dello scenario economico e politico internazionale: ebrei ashkenaziti, il loro impero finanziario e bancario è uno dei più potenti del mondo. La dinastia Rothschild è stata rappresentata nel Gruppo Bilderberg e riveste un importante ruolo nell’organizzazione. A questo proposito, circa un anno fa, quando le notizie sul Gruppo hanno cominciato a circolare più diffusamente, proprio l’Economist ha ritenuto opportuno pubblicare un articolo intitolato The world water-coolers in cui veniva analizzata l’attività del Bilderberg.
Quasi incidentalmente, nel testo viene specificato che anche l’editore, Evelyn Rothschild, partecipa ai meeting. “Poiché gli incontri sono riservati – si legge inoltre più avanti nel corso dell’articolo –, costituiscono un terreno fertile per teorie cospirazioniste”; così l’Economist liquida la vicinanza dell’editore e della testata stessa a una delle organizzazioni più controverse del pianeta. La rivista è di proprietà dell’Economist Group, il cui presidente è Rupert Pennant-Rea, che ricopre ruoli esecutivi anche in molte altre società, come la Go-Ahead – che gestisce i trasporti pubblici inglesi dopo le privatizzazioni –, l’agenzia di investimento Henderson, il Times e la Hochschild Mining, la compagnia mineraria più grossa fra quelle che operano in America Latina. Altri membri del consiglio di amministrazione sono, fra gli altri, John Elkann, Lynn Forester de Rothschild e il caporedattore John Micklethwait, invitato a rappresentare i giornalisti all’incontro del Bilderberg del 2010, tenutosi in Spagna.
L’Economist Group edita anche altre pubblicazioni, fra cui European Voice, quotidiano dedicato all’attività degli organi dell’Unione Europea – anche se il giornale si dichiara neutrale, non può sfuggire l’apparente contraddizione con la posizione dichiaratamente antieuropeista dell’Economist –, e il bimestrale Intelligent Life, dedicato agli stili di vita più sfrenati e improntati al consumo.
Economist Intelligence Unit
La Economist Intelligence Unit è un organo indipendente del gruppo Economist e si occupa di previsioni principalmente di carattere economico e finanziario. Queste vengono realizzate sia su richiesta di clienti che commissionano studi specifici all’agenzia, sia su iniziativa dell’EIU stessa, che periodicamente pubblica una serie di report su diverse tematiche.
I più noti sono l’Indice di democrazia, di cui parliamo approfonditamente più avanti; il CHAMPS, un accurato studio sui distretti cinesi emergenti – il titolo è l’acronimo di alcune delle città in esame: Chongqing, Hefei, Anshan, Ma’anshan, Pingdingshan e Shenyang – che analizza la situazione politica, economica, sociale e infrastrutturale con l’obbiettivo di porsi come elemento di valutazione per investimenti commerciali, immobiliari e finanziari; il Government Broadband Index, che classifica invece i Paesi in base all’efficienza delle loro strutture di comunicazione e delle politiche dirette alla loro implementazione.
Scorrendo la lista degli altri special reports, è facile notare come buona parte di essi siano dedicati ai paesi in via di sviluppo, in particolare ai BRIC (Brasile, Russia, India e Cina): dall’analisi della politica commerciale brasiliana alla guida agli investimenti in Cina, dal punto sulla situazione della Libia nel suo 'anno zero' al prontuario relativo al regime tributario indiano, la maggior parte degli studi sembra orientata a indirizzare, guidare e favorire l’integrazione nel mondo della finanza e dell’economia globale degli stati che ancora non sono pienamente inseriti in questo meccanismo.
Energia, comunicazione, risorse umane, microfinanza, legislazione, sanità sono gli altri argomenti trattati nelle relazioni. Per quanto riguarda l’Italia, la presentazione che si trova sul sito dell’EIU parla di uno scenario politico instabile e di una situazione economica e strutturale che, nonostante gli sforzi del Governo Monti – che, viene previsto, rimarrà fino all’aprile del 2013, quando si tornerà a votare –, fa del nostro paese una palla al piede per il sistema dell’Unione.
L’indice di democrazia
Fra le varie pubblicazioni periodiche dello studio, figura The Economist Intelligence Unit’s Index of Democracy, un report annuale giunto alla sua quarta edizione, che stabilisce il grado e lo stato della democratizzazione di 167 paesi, in pratica la quasi totalità della popolazione mondiale. Le categorie secondo le quali viene stabilito l’indice sono cinque: il pluralismo del processo elettorale, il rispetto dei diritti civili, l’efficienza dell’attività del governo, la partecipazione dei cittadini alla vita politica e la cultura politica in generale.
Il report del 2011 è intitolato Democrazia sotto stress e, nell’introduzione, evidenzia alcuni aspetti che hanno caratterizzato l’anno da poco concluso. Da un lato viene osservato come su alcuni terreni apparentemente poco fertili – Tunisia ed Egitto e gli altri paesi delle 'rivoluzioni' primaverili –, siano state poste le basi per un processo di democratizzazione e liberalizzazione, mentre in altre zone l’umore della cittadinanza è un segnale che fa prevedere comunque una sorte analoga.
Dall’altro lato, il cammino inverso è stato intrapreso da molti paesi 'avanzati', soprattutto europei: arretramento in classifica di dodici stati del nostro continente, difficoltà da parte dei governi a gestire il momento di crisi, crescita dei movimenti di protesta, compresi quelli considerati identitari, estremisti e xenofobi, sono i sintomi di questo peggioramento. Viene inoltre osservato come due paesi di riferimento, Stati Uniti e Gran Bretagna, occupino gli ultimi posti nella loro categoria.
Il calo della performance europea viene direttamente collegato alla crisi economica che ha colpito molti paesi, nello specifico Grecia, Italia, Portogallo, Spagna e Irlanda, unitamente ad altri sette dell’est Europa. Complessivamente, su 167 nazioni, in 48 l’indice di democrazia è calato, in 78 è rimasto stabile e in 41 è aumentato. Ci sono stati diversi cambi di regime: la Russia di Putin è protagonista di uno degli arretramenti più marcati, mentre l’eccellenza positiva è la Tunisia.
È importante sottolineare il dato sulla libertà dei media, che dal 2008 sta sensibilmente peggiorando: l’Italia è uno dei paesi maggiormente coinvolti in questo processo. Le ragioni sono molteplici e vengono ricondotte, fra le altre cose, alla maggiore vulnerabilità dei governi, che porta a un controllo più serrato delle notizie, al concentramento della proprietà dei mezzi d’informazione nelle mani di sempre meno persone e a un clima negativo che influenza gli stessi giornalisti e procacciatori di notizie.
Il direttore e le opinioni
Capo economista e direttore editoriale dell’Economist Intelligence Unit è Robin Bew. Dopo aver lavorato per il Ministero del Tesoro britannico, Bew è entrato nel mondo dell’Economist nel 1995. Esperto di temi finanziari, economia globale, rischi e servizi, è considerato una delle voci più autorevoli dell’editoria economica. Per comprendere le sue posizioni, è interessante ascoltare il servizio in cui Bew fa un bilancio del 2011 e prova a prevedere quanto succederà nel 2012.
Secondo il direttore editoriale dell’EIU, le pressioni politiche interne alla Gran Bretagna la stanno spingendo sempre più lontano dall’Unione e dall’euro, suscitando la reazione preoccupata degli altri paesi membri, primo fra tutti la Germania. Negli Stati Uniti, prossimi alle presidenziali, la situazione è abbastanza caotica: Obama ha già dimostrato di non essere in grado di fronteggiare la grave crisi, ma gli avversari repubblicani non sembrano per ora in grado di sfruttare questa debolezza.
Il discorso si sposta anche sul piano ambientale ed energetico, chiamando in causa Barbara Judge, già a capo della UK Atomic Energy Authority, che sostiene che quelle inerenti alla questione nucleare siano e debbano effettivamente essere delle decisioni eminentemente politiche e che Fukushima, che è già diventata uno spartiacque nel discorso sull’energia atomica come lo fu Chernobyl, non debba influenzare più di tanto il dibattito.
Questa considerazione è seguita dagli esempi di Germania e Spagna, due paesi che hanno compiuto un percorso opposto – la Germania rinunciando progressivamente al nucleare, la Spagna recuperando questa tecnologia dopo averla abbandonata –, che è stato però di natura politica. Bew concorda con Barbara Judge sul fatto che il nucleare debba essere parte della soluzione al problema energetico che si sta ponendo con forza oggi. Parlando dei paesi in via di sviluppo – soprattutto di quelli soggetti a un tasso di crescita più promettente, come l’India –, l’opinione di Bew è che essi debbano da un lato aprirsi sempre più all’economia globale, integrandosi con i suoi meccanismi, dall’altro risolvere le problematiche interne, endemiche e strutturali, una su tutte la corruzione, che rimarranno sempre un freno alla loro consacrazione sullo scenario politico ed economico mondiale.
La conclusione è dedicata a uno dei mercati emergenti più promettenti per la 'comunità finanziaria', ovvero quello dei paesi interessati nel 2011 dalla Primavera Araba. Bew sottolinea però da un lato che gli stravolgimenti politici di questi mesi non sono una garanzia assoluta dell’inizio di un processo di democratizzazione e liberalizzazione compiuto, dall’altro che aree politicamente instabili o amministrate da governi discutibili possono essere comunque favorevoli sul piano degli investimenti finanziari e commerciali.