Inghilterra, 1856. Rivoluzione industriale. Serve carbone per le ruggenti macchine che spingono l’industrializzazione del paese. Bisogna migliorare le rese energetiche e allora il carbone fossile viene distillato, per ottenerne un tipo a più alto potere calorifico. Un sottoprodotto di questa lavorazione è il catrame e il catrame è ricco di anilina. Il chimico Perkin, nel 1856, sta lavorando a estratti greggi di anilina per ottenere degli antimalarici ma scopre invece come ottenere una sostanza viola: la chiama mauveina. Da quel momento in poi lo sviluppo della chimica coloristica sintetica sarà veloce e imponente, e quella che era stata per secoli “l’arte della tinta”, a base di preparati vegetali, viene rivoluzionata dall’impiego di sempre nuovi coloranti sintetici.
Io sono chimico. Vedo nella chimica moderna la realizzazione del sogno alchemico, vecchio di secoli, di riuscire a trasformare la materia da una sostanza all’altra. Tutto questo ha qualcosa di magico. Ho sempre pensato che il meraviglioso e lo scientifico hanno molte cose in comune… Ma questo sviluppo da imponente è diventato prepotente e oggi l’industria chimica coloristica ha raggiunto volumi produttivi troppo impattanti: 1.200.000 tonnellate di coloranti e pigmenti organici prodotti su scala mondiale, di cui circa il 40% in Cina. La Zhejiang Longsheng Group Co. produce circa 150.00 tonnellate/anno di coloranti sintetici. La B.A.S.F. 15.000 tonnellate/anno di pigmenti organici (non confondere organico con biologico; in chimica organico si usa per dire sintetico, in contrapposizione a minerale).
In Italia si contano una cinquantina di imprese produttrici di coloranti e pigmenti per lo più concentrate in Lombardia. I settori delle vernici, inchiostri e quello tessile assorbono la maggior parte di queste produzioni. Prendiamo per esempio il settore dei coloranti per il tessile: ci troviamo davanti a una industria chimica coloristica che da due secoli affina il proprio know how e investe in ricerca e sviluppo. Le economie di scala e il vantaggio di operare in un settore molto maturo permettono a queste aziende di proporre i coloranti a prezzi che vanno circa dalle 10 alle 50 euro/kg. Che possibilità ha oggi una azienda che vuole parlare di green economy di competere sul prezzo con questa realtà? Questo è il mio lavoro e se non pensassi che ciò è possibile non lo farei, ma questa green economy è agli albori e paga lo scotto di doversi re-inventare un modello di produzione sostenibile. Io coltivo e trasformo piante ricche di principi coloranti; il vantaggio più grande di questa professione è avere la Terra dalla tua parte: coltivo in mezzo al deserto della pianura padana ma sento la forza che trasmette il seminare e il raccogliere. Secco queste piante e le frantumo, una parte la estraggo per farne estratti vegetali coloranti: sono sicuro che le stoffe colorate con i miei prodotti non contribuiscono a queste statistiche: su un campione di capi in commercio monitorato tra il 2009 e il 2011, l’Associazione tessile e salute ha riscontrato che il 4% contiene ammine aromatiche cancerogene, il 4% coloranti allergenici, il 6% metalli pesanti oltre i limiti consentiti, il 4% formaldeide. Il 50% delle calzature di cuoio importate contiene il famigerato cromo esavalente. Il 34% dei capi monitorati ha una etichetta con una indicazione non esatta delle fibre di cui è composto. Senza considerare le problematiche legate ai reflui di lavorazione delle imprese della nobilitazione tessile (circa 1100 imprese in Italia) e a quelli delle industrie produttrici di coloranti. Ma c’è altro: guardate un panno tinto con radice di robbia (Rubia tinctorum) e uno con alizarina sintetica. Il primo è un colore tondo, intimo, che come lo guardi ne nasconde sempre altro. Il secondo è un colore piatto, freddo, finito. La reseda (Reseda luteola) dà alla lana un giallo acceso che ammicca sempre al verde, senza mai rivelarlo. Il Guado (Isatis tinctoria) comunica sia alle fibre vegetali che a quelle proteiche un indaco che compete con la sensazione di apertura e di profondità che trasmettono i blu del cielo e del mare.
Anche la tintura vegetale ha aspetti critici: il forte consumo di acqua e l’impiego di sali di alluminio (allume di rocca) per la mordenzatura delle fibre sono due aspetti che vanno studiati e migliorati. Più avanti sembra invece la ricerca per quel che riguarda il processo di riduzione dell’indaco naturale nel processo di tintura detto al tino: oggi possiamo contare sull’impiego di batteri riducenti, mentre in Francia si usano gli innocui fruttosio e acido ascorbico al posto del più pericoloso idrosolfito di sodio.
Penso che nei prossimi anni dedicare risorse economiche alla ricerca e sviluppo e anche improntare azioni di marketing efficaci sia necessario per consolidare lo zoccolo duro di questo mercato di nicchia dei coloranti naturali e mettere anche la testa un po’ fuori. La linea guida rimane porre l’agricoltura al centro di processi produttivi anche di beni no-food, come appunto coltivare piante tintorie per ottenere coloranti. Pensare l’agricoltura come sistema integrato che crea qualità dell’ambiente, prodotti alimentari di qualità, materia prima per processi di chimica verde.
(per approfondire: www.terraeblu.it).