Roberta e Piero ci raccontano un viaggio di impressioni raccolte dal finestrino del treno delle Ferrovie del Gargano. "Due ore di paesaggi che tolgono il respiro, mostrando le bellezze di tutta la Capitanata come fossero merce rara".
C’ è un vecchio mulo di ferro che non si stanca di ascendere sulla Montagna dell’Arcangelo. Fa un lungo giro, parte da San Severo, tocca Sannicandro e sale a Carpino ed Ischitella, ammira il lago di Varano, la lingua di terra che spacca l’azzurro in due, dividendo specchio lacustre e specchio marino. Infine in quel blu s’immerge, si tuffa su Rodi, San Menaio, Calenella. È il treno delle Ferrovie del Gargano. Un viaggio che, da solo, ormai fa turismo. Due ore di paesaggi che tolgono il respiro, mostrando le bellezze di tutta la Capitanata come fossero merce rara.
Non solo mare. Perché all’inizio è il giallo intenso a carezzare gli occhi. Paglia come sole. Paglia al sole. Paglia e sole. Abbracciati, abbarbicati l’uno all’altro nella comunione di un riflesso di luce. Un riflesso che rimpalla ovunque, si schianta sulle balle ordinate, sulle masserie diroccate. San Severo è ancora lì, ma è l’odore dell’aria quello che non lascia scampo. Solo il finestrino segna il confine tra il viaggio fisico e quello delle emozioni. Con la terra che si colora di rosso e la montagna di un rosa sbiadito, s’inala il profumo dei fichi e dell’arsura.
E mentre ci s’arrampica parla soltanto una calma silente. A chi domanda di far presto, il Gargano dice solo: “Calma”. Giunto ad Apricena, il convoglio pare già un invasore piccolo e discreto. Lattiginoso sbuffatore elettrificato sovrastato dal frinire delle cicale. Metro dopo metro, s’addentra nel tepore di una storia narcotizzata. Fermata come un’istantanea sul rosmarino che s’inerpica sul traliccio della ferrovia, sulle capre che brucano beate ai bordi dei binari, sulle vacche che ignorano l’esistenza di una vita diversa dalla loro. Si marcia su fenomeni carsici antichi come le montagne. Passato l’abitato di Sannicandro, il balcone si amplia. La ferrovia corre in mezzo fra i laghi di Lesina e di Varano; sullo sfondo, le Tremiti sono un increspamento nebbioso dell’orizzonte.
Dal treno, passa Cagnano Varano. Più Baghdad che Foggia, poi Carpino ed Ischitella. Nel mezzo, distese infinite di nulla che si perdono nell’ozio. Campi, ulivi e terra che il vento fa turbinare. Polvere di Dio e dell’Arcangelo che bussa in faccia: pulviscolo rosso, marrone, nero. Corpo che accoglie alberi e filari di viti. Ordinati, come schiere in fila. In mimetica verde, come soldati dell’ebbrezza. Sono i paesaggi per cui ha vibrato la chitarra di Matteo Salvatore, hanno taccheggiato le castagnole di Antonio Piccininno, poetato le voci degli antichi cantori, i menestrelli del Gargano.
Quando sbuca il mare, faraglioni bianchi come iceberg sedimentati di roccia, capisci di essere quasi a meta. I gabbiani si fanno compagni di viaggio. Spunta un trabucco, poi una galleria, alla fine Rodi con il suo porto turistico nuovo di zecca. I villeggianti della domenica e quelli settimanali, gli alberghi di lusso ed i villaggi turistici. L’azzurro pulsa di luce. Fino a Vico, spiaggia per spiaggia, poi ancora bosco. Nell’ombra, fra gli alberi, stracci di mare. Tutto è lento. Lento, non slow. Lento alla marinaresca, non alla Grand Canyon.
A Calenella, il trasbordo in pullman. Ed una salita che ogni curva è un patema. Peschici fissa a poppa come un punto bianco dilatato sulla scogliera. Lungo il tragitto, le impronte saracene, torri d’avvistamento contro altri pirati (i primi furono loro), bancarelle di frutta e olive e pane e aglio e cipolle e salumi. Un treruote, sul ciglio sabbioso della strada, ormai ad un tiro di schioppo da Peschici, ha il carico pieno di sedie e tavolini di legno.
Roberta Paraggio e Piero Ferrante
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