Un mobilificio alle porte di Roma, attivo da oltre 20 anni. Poi le acquisizioni, i rilevamenti, la crisi, la sospensione degli stipendi. I dipendenti, soprattutto donne alle prese con la conciliazione di tempi di vita e tempi di lavoro, restano al proprio posto finché la situazione diventa insostenibile. La figlia di una di loro ci racconta una storia drammatica ma capace di lasciar spazio a prospettive nuove. Un racconto-inchiesta che non è solo vicenda autobiografica, ma esperienza comune a molti in questo periodo storico.
Quando ero bambina, mia madre mi portava spesso con sé a lavoro, a volte perché altrimenti non avrebbe saputo a chi altri lasciarmi, altre perché ero io a chiederglielo: d'altronde i suoi orari lavorativi erano tali da concedere poche ore alla nostra intimità familiare ed entrambe cercavamo di approfittare di ogni occasione che ci permettesse di trascorrere più tempo insieme.
Andava sempre a finire che lei era troppo impegnata e io, che avevo un temperamento tranquillo, giocavo da sola in quel mobilificio enorme, perdendomi tra le decine di salotti e camere da letto, nascondendomi tra le cucine ed importunando gli altri dipendenti con domande e richieste di dolcetti.
Ricordo che fantasticavo immaginando che tutto il negozio fosse la mia casa, i venditori la mia famiglia (quelli che mi erano meno simpatici facevano parte della servitù) ed i clienti che, poverini, vagavano alla ricerca di un'occasione, i miei ospiti. Me li immaginavo come persone meno fortunate, che non avevano altro posto in cui stare e a cui io, che avevo tutto quello spazio a disposizione, avevo concesso asilo. D'altronde tutti hanno bisogno di una casa, un posto in cui essere al sicuro, pensavo.
Quel mobilificio, situato alle porte di Roma, allora si chiamava Euromibilia (Centro Europeo del Mobile S.p.A.), mia madre era una giovane brillante impiegata che si districava tra gli impegni lavorativi e la vita familiare ed io avevo circa 5 anni.
Oggi sono passati più o meno 20 anni dall'epoca cui risalgono questi ricordi e la società per cui lavorava mia madre non esiste più. Il negozio di Pomezia, in compenso, è sopravvissuto e, dopo una lunga serie di acquisizioni e rilevamenti, è stato affittato alla Panmedia S.p.A..
Panmedia, società torinese guidata dall'amministratore Giuseppe Gallo, è subentrata, nell'estate del 2010 alle fallimentari B.&S. S.p.A. e Holding dell'Arredo S.p.A., che a loro volta avevano precedentemente rilevato i marchi Emmelunga (tra questi la ex Euromobilia di Pomezia) ed Aiazzone, facendosi carico di 44 punti vendita dislocati in tutta Italia.
In tutti questi anni, mentre cambiavano i proprietari, il nome e la fisionomia stessa del negozio in cui giocavo da bambina, mia madre è rimasta al suo posto, innamorata del suo lavoro. Come tantissime altre donne, da anni, lavora praticamente 24 ore su 24, in negozio e a casa, senza mai lamentarsi, certa che i suoi sforzi verranno un giorno ripagati.
Anche quando la B.&S. inizia, a partire dal 2010, a non corrispondere regolarmente gli stipendi ai dipendenti, mia madre è fiduciosa, spera che sia una situazione solo temporanea e che le dichiarazioni d'intento dei nuovi proprietari verranno presto attese. Quando, nel corso dell'estate, subentra Panmedia che predispone, assieme ai sindacati, un piano di graduale rientro nella normalità dei pagamenti, sembra che il peggio sia passato e tutti tiriamo un sospiro di sollievo.
In realtà già allora vi erano le premesse per comprendere che i problemi erano ben lontani dall'essere risolti: Panmedia, infatti, che a partire dal luglio del 2010 si trova a controllare circa 850 dipendenti, era (almeno fino ad allora) una società che si occupava esclusivamente di marketing pubblicitario e produzioni televisive e contava poco meno di 15 addetti. Tuttavia il piano di rientro predisposto viene, almeno in un primo momento, rispettato e le perplessità che avevano accompagnato l'entrata in scena della società di Giuseppe Gallo si affievoliscono.
Ben presto, però, anche Panmedia disattende le aspettative dei suoi dipendenti e riprende la pratica, già nota, di interrompere i pagamenti ai fornitori e di ritardare quelli dovuti ai dipendenti. A dicembre del 2010 viene corrisposto, in due tranche, lo stipendio di ottobre e, da allora, più nulla.
Nel frattempo, dato che i fornitori non vengono pagati, i negozi progressivamente si svuotano e si moltiplicano le lamentele dei clienti che, seppure abbiano regolarmente pagato i loro acquisti (spesso tramite finanziamento), non vedono recapitarsi i mobili. In queste condizioni molti punti vendita vengono chiusi e i dipendenti vengono mandati in ferie o, in alcuni casi, 'distaccati' in altri negozi.
La situazione arriva al culmine sabato 12 febbraio quando al responsabile del negozio in cui lavora mia madre viene comunicato che nei successivi 10 giorni avrebbe dovuto chiudere l'esposizione per predisporre l'inventario. A questo punto non c'è spazio per ulteriori illusioni: dopo un anno di stipendi non corrisposti in maniera regolare, con ben 5 mensilità non pagate, senza contributi versati, braccati da clienti furibondi e nella totale assenza di qualsiasi supporto da parte della direzione, i dipendenti del vecchio negozio Emmelunga (l'allora Euromobilia) ai quali nel frattempo si sono uniti quelli del vicino punto vendita di Aiazzone, sono esasperati e decidono di dichiarare un'assemblea permanente H24 occupando l'edificio in cui, fino a quel momento, avevano lavorato.
Qualche giorno fa, il 19 febbraio, sono andata a trovare mia madre a lavoro, nello stesso mobilificio in cui giocavo da bambina: fuori non c'erano più tante macchine parcheggiate, l'altalena che un tempo era stato uno dei miei passatempi preferiti nei giorni estivi non esiste più e le mura dell'edificio sono tappezzate di striscioni, bandiere ed articoli di giornale.
I colleghi di mia madre mi vedono arrivare, mi riconoscono e lasciano entrare, sono soprattutto donne, madri di famiglia come la mia, e sono impazienti di raccontare la loro storia. Al centro della hall hanno allestito un piccolo salotto, prendendo in prestito i divani e le poltrone da esposizione, un paio di tavoli e qualche sedia. Alla televisione trasmettono una commedia italiana, qualcuno gioca a carte, Anna prepara il caffè utilizzando il fornello elettrico che aveva acquistato per andare in campeggio qualche estate fa. “Tanto ormai l'idea di andare in vacanza, non è più un miraggio, ma un incubo”, dice ridendo, ma con gli occhi seri.
Per un attimo mi sembra di essere tornata bambina, ma questo non è più un gioco. Mi invitano a mangiare e a bere un sorso di vino. Accetto, mi siedo e mi guardo intorno: sono a casa.
Alcuni di loro li conosco da una vita, altri solo di sfuggita, alcuni ancora sono degli sconosciuti, vengono dal negozio di Aiazzone, ma sembrano far parte della famiglia da sempre.
Tra loro c'è Raquel, 38 anni, valenciana di nascita, che non riesce a smettere di fare il suo lavoro, l'allestitrice, nemmeno con il negozio chiuso: continua a mettere in ordine il salotto occasionale nel quale ci troviamo, aggiungendo un tappeto, un vaso e qualche fiore. Raquel ha un carattere forte e combattivo, continua a ripetermi che non vuole carità, né pietà, né aiuto, ma solo quello a cui ha diritto: un lavoro che le permetta di pagare la sua casa e vivere la sua vita. Non vuole di più. La notte scorsa l'ha trascorsa in negozio “tra i rumori delle macchine sulla Pontina e Rosario che russava non ho dormito granché”.
È stanca ma non vuole andarsene, qui non si sente sola, percepisce la legittimità della loro protesta ed ha paura di tornare a casa e demoralizzarsi. “Ci facciamo forza l'un l'altro e stando tutti insieme riusciamo a scherzare e a dare una parvenza di normalità ad una situazione assurda”. Rosario invece è andato a casa, dove ha due bambine piccole che lo aspettano e una moglie un po' arrabbiata per il fatto che ha passato la notte fuori. Sono entrambi preoccupati per il loro futuro e per quello della loro famiglia.
Anche loro, come tutti dentro questa stanza, sono arrivati al culmine della disperazione: con 5 mesi di stipendi arretrati non sanno più come pagare il mutuo, o in alcuni casi l'affitto, e faticano anche a comprare da mangiare, far rifornimento alla macchina e pagare le bollette. Anna, che lavora qui da oltre 26 anni, mi racconta che il minore dei suoi 3 figli sarebbe dovuto andare in gita scolastica domani mattina, ma lei non può permetterselo: “Non fa niente, mamma”, le ha risposto lui con l'espressione imbronciata. Ovviamente questo è l'ultimo dei problemi della famiglia di Anna, eppure moralmente la distrugge: “ormai non possiamo permetterci più nemmeno le piccole cose e la vita è fatta di piccole cose”, confessa.
Anna è una bella signora di 45 anni, divorziata, con 3 figli di cui 2 a carico ed un mutuo trentennale alle spalle. La settimana prossima andrà in banca a richiedere una sospensione, ma continua a rimandare perché sa quello che le verrà risposto: per avere la sospensione del mutuo bisogna dimostrare di aver perso il lavoro e questo, almeno formalmente, non è ancora avvenuto.
Al danno si aggiunge anche la beffa: ufficialmente, infatti, i dipendenti di Panmedia S.p.A. non sono stati licenziati e dunque non possono godere degli ammortizzatori sociali previsti in queste situazioni: si trovano in un vero e proprio limbo. L'azienda, che poco più di sei mesi fa pronunciava grandi proclami di rilancio del gruppo e chiedeva solo un po' di pazienza, li ha abbandonati al loro destino, nella completa noncuranza della loro condizione, senza nemmeno preoccuparsi dell'esito del loro presidio.
Il 15 febbraio non si è presentato nessun rappresentante dell'azienda all'incontro predisposto presso il Ministero dello Sviluppo Economico nel quale le parti coinvolte (sindacati, governo e azienda, appunto) avrebbero dovuto decidere le sorti di Panmedia e dei suoi dipendenti. L'amministratore Gallo ha inviato un comunicato, accompagnato dal relativo certificato medico, in cui affermava di essere impossibilitato, a causa delle sue condizioni di salute, a prendere parte alla riunione. In compenso, si dichiarava favorevole a un passaggio dell'azienda sotto amministrazione straordinaria da parte dello Stato.
Qualche giorno dopo lo stesso Gallo ha fatto sapere ai dipendenti che avrebbe preso parte al prossimo incontro ufficiale, rinnovando la richiesta ad effettuare l'inventario. Nessuna domanda o commento sullo stato dell'assemblea permanente e delle persone che l'hanno indetta. I presidianti, d'altronde, non sono stupiti, si sono rassegnati alla totale indifferenza da parte della direzione dell'azienda: ormai da mesi sono stati abbandonati a far fronte alle lamentele di clienti e fornitori, lamentele che, in alcuni casi, si sono trasformate in veri e propri episodi di violenza. “È la solita guerra fra poveri, in cui i veri responsabili si defilano e la fanno franca”, sbotta Grazia “in realtà clienti e dipendenti dovrebbero allearsi perché sono accomunati dal fatto di essere stati truffati”.
Grazia lavora qui da ben 38 anni, era poco più di una bambina quando ha iniziato e ora le mancano solo 2 anni per andare in pensione, è amareggiata: ha dato la sua giovinezza per questo lavoro e ora si ritrova con un mucchio di polvere in mano. L'amministrazione straordinaria secondo lei non è una vera soluzione: “i clienti c'erano e ci sono ancora, come dimostra il via vai quotidiano di persone che vengono in negozio ed il gran numero di lamentele che sono arrivate nel corso di questi mesi. Potremmo continuare a vendere se solo avessimo la merce e, quindi, se solo i fornitori venissero pagati. Questi signori hanno smembrato un'azienda viva per fare i loro interessi personali”.
Chi sono i “signori” di cui parla Grazia? Chi è il responsabile di questa situazione? Le ipotesi sono molteplici e non sempre concordi. Ognuno dà la sua interpretazione, ma è effettivamente complicato capire come siano realmente andate le cose.
Capire quello che è successo appare importante quasi quanto scoprire cosa ancora succederà, ma per questo è necessario aspettare almeno fino al tanto atteso incontro presso la sede del Ministero dello Sviluppo Economico. I dipendenti dei vecchi negozi pometini di Emmelunga ed Aiazzone saranno lì e sperano che al loro fianco si schiereranno anche i clienti truffati dato che, al momento, stanno combattendo un nemico comune, anche se invisibile.
Ormai è notte inoltrata, lascio mia madre e gli altri che passeranno la notte nel negozio e torno verso casa. Durante tutto il tragitto cerco tra la memoria il ricordo dei giorni felici trascorsi da bambina in quel negozio, l'immagine di mia madre giovane che mi sorride e mi dice che un giorno avrei capito perché non poteva rimanere con me. Ci provo, ma non ci riesco, forse perché ora che io capisco, lei non ci riesce più e anzi crede di aver sbagliato tutto.
Pensa di aver fallito “nell'unica cosa che ho fatto in tutta la mia vita”, si sente vecchia, “da rottamare”, crede di aver sprecato 30 anni per qualcosa che non esiste più e forse non è mai esistito. Mi ha confessato che forse ha sbagliato anche con noi, con i suoi figli, perché non avrebbe dovuto insegnarci ad essere onesti e a rispettare il prossimo, ma avrebbe dovuto dirci di essere furbi e approfittarsi degli altri prima che loro si approfittino di noi, perché in questo Paese “funziona così, funziona così da sempre e io sono stata un'ingenua a non accorgermene prima”.
Io avrei voluto dirle tante cose, ma l'ho abbracciata e sono rimasta in silenzio. Intanto continuavo a pensare a cosa insegnerò un giorno io ai miei figli, a come li farò crescere e dove. Se li porterò a lavoro con me e se anche loro odieranno il mio principale. Se anche io dirò loro che “un giorno capiranno” e se avremo una casa nostra in cui sentirci al sicuro.
Per ora il problema è lontano, non ho figli, né un lavoro fisso, né tanto meno una casa di mia proprietà. Un giorno, però, vorrei avere tutto questo e già mi domando se sono un'ingenua ad immaginare il mio futuro in questi termini. Forse sto ancora giocando tra i mobili senza rendermi conto che non ci sono più visitatori e le persone meno fortunate, che un tempo credevo di voler aiutare, siamo diventati noi.
Commenti