La tv australiana racconta le grandi contraddizioni della Cina

Attraverso un servizio realizzato dalla televisione australiana, analizziamo la situazione in cui si trova oggi la Cina, in bilico fra le precarie condizioni socio-economiche, il dominio di un partito totalitario e un tentativo di apertura allo stile di consumo occidentale che rischia di innescare la detonazione di un sistema già di per sé esplosivo.

La tv australiana racconta le grandi contraddizioni della Cina
SBS è un famoso canale televisivo australiano, Dateline è una delle sue trasmissioni di punta, un programma di approfondimento molto seguito che si occupa di attualità, politica, società ed economia in tutto il mondo. Alcuni giorni fa, Dateline ha realizzato un interessante servizio sulla Cina allo scopo di comprendere meglio il fenomeno “dragone” e soprattutto di provare a capire quale può essere il suo ruolo e la sua reale veste nel grande gioco del mercato globale. Tutti conosciamo la Cina come immenso serbatoio di manodopera a basso costo, come principale destinazione delle delocalizzazioni occidentali e come partner irrinunciabile per le grandi multinazionali che vogliono rendersi competitive nell’economia globalizzata. L’immagine che molti potrebbero farsi di questo paese è quindi quella di un contesto sociale abbastanza precario, con condizioni di lavoro ben al di sotto della soglia di tolleranza, una povertà accentuata e diffusa e una grave carenza in termini di riconoscimento dei diritti civili basilari. Diciamolo subito: buona parte di questi aspetti trovano effettiva corrispondenza nella realtà dei fatti. Parallelamente però, è in atto un processo di occidentalizzazione della società cinese molto serrato, che mira a trasformare il paese asiatico in un nuovo grande mercato per il consumo globale. Sarebbe però più esatto dire che tale trasformazione è per ora solo tentata, peraltro vanamente. Dateline si è occupata proprio di trovare degli esempi del tentativo e del conseguente fallimento di questa mutazione, evidenziando anche quelle che potrebbero essere le conseguenze, non solo sul piano nazionale ma anche su quello globale, di questa gigantesca operazione. Si parte dal nuovissimo distretto di Zhengzhou, grossa città situata nella Cina centrale. Le immagini mostrano interi quartieri caratterizzati da moderni e giganteschi palazzi, grandi boulevard pedonali e aree commerciali infinite. Tutto però è deserto. Gli appartamenti sono sfitti, i negozi pure e per strada si nota solo qualche bambino che gioca a pallone o corre in bicicletta. L’atmosfera è quella di una moderna e sontuosa città fantasma. L’obiettivo si sposta quindi a Dongguan, all’estremo sud del paese, vicino a Hong Kong e Macao. Lo scenario è molto simile e l’immagine di desolazione che viene trasmessa è rafforzata dalla visita che il giornalista dell’emittente australiana effettua all’interno del South China Mall, un colossale tempio del consumo concepito per ospitare 150 negozi e 75 mila visitatori al giorno. Anche qui però, non c’è quasi nessuno. Si incontrano di tanto in tanto manutentori, guardie giurate o addetti alle pulizie, ma di clienti neanche l’ombra. Il commesso di un negozio di giocattoli – una delle pochissime attività aperte all’interno del centro – riferisce che per vendere un articolo gli ci vogliono mediamente quattro o cinque giorni. A questo proposito, è emblematica la definizione che il New York Times diede del South China Mall al momento della sua inaugurazione: “Un esempio della straordinaria cultura del consumo cinese”. “Evidentemente – commenta l’inviato della SBS – la cultura del consumo dei cinesi è stata fortemente sovrastimata”. Uno degli aspetti più inquietanti e controversi della situazione è che, nonostante l’assenza totale di riscontro da parte di acquirenti e fruitori delle strutture realizzate, l’opera di costruzione continua incessantemente. Tuttavia, le difficoltà che il Governo cinese – che viene identificato da molti cittadini e addetti ai lavori come il principale attuatore di questa politica di mercificazione – sta incontrando, non vanno ricondotte solamente a motivi di ordine culturale. Come rileva Gillem Tulloch, analista esperto del mercato cinese interpellato da Dateline, il vero problema è l’assoluta incongruenza fra la situazione economica reale e le aspettative di consumo di questo nuovo mastodontico piano. Un nuovo insediamento, situato sempre nella Cina meridionale, è stato progettato per ospitare fino a 12 milioni di persone; il settanta per cento delle nuove abitazioni però è vuoto. “La Cina – prosegue Tulloch – sta sperimentando un bolla immobiliare più grande di quella americana. Nell’intero paese ci sono 64 milioni di appartamenti sfitti. Siamo in presenza di un eccesso di offerta e di una supervalutazione dei beni che non corrispondono in alcun modo alla situazione dell’economia reale”. Al di là del dato specifico, da alcuni bollato come esagerato e non corrispondente a quello reale, rimane valida la considerazione di fondo che il turbo inserito dal Governo nella pianificazione economica del paese è destinato a provocare un fuori giri potenzialmente letale. Nonostante questo, mantenere costante questo folle tasso di crescita economica è la principale priorità di Hu Jintao, persecutore di una politica economica che sembra l’estremizzazione dell’apertura ai mercati occidentali predicata da Deng Xiaoping, in bilico fra il mantenimento di un’impostazione socialista facente capo all’inossidabile partito e un’apertura a occidente ricettiva nei confronti delle esigenze del libero mercato. I progetti sulla carta si scontrano però con un’economia caratterizzata da ben altri numeri: a fronte di prezzi per le unità immobiliari inserite in questi nuovi, sconfinati contesti abitativi che vanno dai 70 ai 100 mila dollari, lo stipendio medio di un cittadino cinese è di 6 mila dollari l’anno. A questo si aggiungono condizioni contrattuali spesso troppo onerose, che possono arrivare a richieste di una caparra del 15% seguite da una liquidazione del resto dell’importo nel giro di tre anni. Secondo Tulloch, questa situazione è il preludio a una bolla immobiliare potenzialmente più devastante della crisi dei mutui americani, tanto per l’economia cinese quanto per quella globale. È inutile sottolineare che le ripercussioni di un simile evento sarebbero devastanti, ricordando anche che una considerevole fetta della produzione mondiale di beni è nelle mani delle fabbriche cinesi. Particolarmente emblematica rispetto a un tema che in Cina è ancora oggi tristemente attuale, è una breve intervista rilasciata da un impiegato pubblico che si occupa proprio dei piani di sviluppo di questi nuovi insediamenti. L’uomo mostra l’alloggio dove vive: un bilocale che condivide con altre nove persone, il massimo che lui e i suoi coinquilini possono permettersi. Interpellato in merito alla politica abitativa ed economica in generale del Governo però, l’intervistato si irrigidisce: “Anche se avrei molto da ridire sull’argomento – spiega – è meglio che stia zitto, sennò le ripercussioni sarebbero troppo pesanti”. La contraddittorietà della situazione è rafforzata dagli ulteriori commenti a riguardo. C’è chi parla di edifici costruiti da pochi anni e già fatiscenti, realizzati con materiali scadenti e assolutamente inefficienti dal punto di vista energetico e funzionale. Critiche vengono rivolte anche all’aspetto tecnico della progettazione, che sembrerebbe non aver tenuto conto delle effettive potenzialità delle zone designate e degli equilibri fra insediamenti abitativi, dotazione infrastrutturale e possibilità occupazionali; il risultato sarebbe un piano di urbanizzazione scoordinato e strampalato. Che dire del quadro che emerge? Certamente la definizione che se ne può dare con più facilità è 'contraddittorio'. Monopartitismo al limite del totalitarismo, impostazione socialista che però mira ad aprire le porte al consumismo tipico del liberal-capitalismo, politiche economiche campate in aria e calate in un contesto sociale caratterizzato da diffusa povertà. Il tutto in un paese che è partner produttivo di mezzo mondo e ago della bilancia per molte economie. Per quel che ci riguarda da vicino, viene da pensare che chi sta delocalizzando disinvoltamente le proprie produzioni in un luogo caratterizzato da tali criticità forse ha fatto male i suoi conti, non solo da un punto di vista culturale – contribuendo in maniera decisiva alla distruzione delle economie, dei saperi e delle potenzialità produttive locali – ma anche da quello commerciale. Certo è che questa situazione, potenzialmente esplosiva sia sul piano sociale – nel servizio c’è anche chi parla di rivolte popolari ad opera delle classi meno abbienti e più penalizzate – che su quello economico, ha tutte le carte in regola per essere destabilizzante in misura uguale se non superiore rispetto alla crisi dei mutui del 2008, dalla quale peraltro ancora non ci siamo rialzati.

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