“Non possiamo e non dobbiamo continuare a urlare, non basta e non serve piangere, se quel che vogliamo è non tornare in gabbia, non restare al buio, ma liberare e costruire un mondo che ci somiglia, se vogliamo noi stessi somigliare a quel che un essere umano ha il compito infinito di diventare”.
Urlare è la prima cosa che facciamo quando veniamo alla luce. Passati dal silenzio fetale al rumore della vita, la nostra reazione istintiva, la forma che assume il nostro respiro, è quella del grido. Anche se lo chiamiamo pianto. Urliamo poi, da grandi, quando protestiamo contro qualcosa o qualcuno che non capiamo o da cui non ci sentiamo capiti. E persino quello, in fondo, è un segnale di passaggio, la testimonianza inarticolata che un cambiamento sta avvenendo.
È certo una manifestazione primitiva, un’espressione semplice, basilare, comune agli esseri animati, animali e piante inclusi. Che cosa fa lo sterpo in cui è racchiusa l’anima di Pier delle Vigne suicida, nel XIII canto dell’Inferno? Quando Dante spezza il ramo e fuoriesce la ‘voce’ del dannato, quel braccio vegetale urla, come succede appunto al legno troppo verde gettato nel fuoco. Ma se nascere e morire (spesso le due cose sono la stessa, si muore a una vita per nascere a un’altra) significano emettere un urlo, crescere implica una complicazione e un arricchimento faticosi e bellissimi, che rendono quel suono una parola.
È allora che la disperazione, lo spavento, l’impotenza con cui ogni mutazione ci mette a confronto si capovolgono in speranza, in fiducia, in attività d’apprendimento. Trasformare il grido in discorso è un atto specificamente umano. Non possono farlo gli animali o gli alberi, le pietre o le nuvole. Forse è sempre un urlo che rompe l’afasia dell’ottusità, dell’abitudine, dell’isolamento; forse ci vuole un urlo per attirare l’attenzione di chi non ci vede, non ci ascolta, di chi ci nega e ignora; forse, a volte, non c’è che un urlo per darsi forza e spezzare la catena che ci lega, la violenza con cui siamo messi a tacere.
E però non possiamo e non dobbiamo continuare a urlare, non basta e non serve piangere, se quel che vogliamo è non tornare in gabbia, non restare al buio, ma liberare e costruire un mondo che ci somiglia, se vogliamo noi stessi somigliare a quel che un essere umano ha il compito infinito di diventare.
Conversare, in rime o in prosa, in lettere, messaggi, proclami, inchieste, proposte, articoli, saggi, aforismi, telefonate, telegrammi, è la preziosa occasione che ci è data dal primo momento all’ultimo respiro. Coglierla è nostra responsabilità: letteralmente la risposta che dobbiamo alla domanda che esistere comporta.