A volte, con l'immaginazione, evadiamo la realtà: “l’alternativa che si costruisce ha esiti alienanti come quelli da cui si è quotidianamente perseguitati: una volta conclusa si fa ritorno, e la carica ricevuta si esaurisce in un breve sospiro”.
A volte evadiamo la realtà. Immaginiamo, per esempio, di vivere in altri mondi o paesi, o in un’altra epoca. Immaginiamo di essere più belli, più ricchi, vincenti. Immaginiamo di sopravvivere a pericoli mortali, come succede a James Bond quando attraversa l’esplosione di una bomba, o di sfidare la gravità e l’orrore del vuoto, altalendando rapidi come l’Uomo Ragno dal tetto alla vetrata di un grattacielo.
Oppure immaginiamo cose che non esistono ma potrebbero farlo, se fossimo abbastanza coraggiosi da crederci: Stati migliori e più giusti in cui vivere, società gioiose dove crescere in modo creativo, città verdi e pulite, rapporti personali appaganti, lavori degni e degnamente retribuiti.
Emilio Salgari condusse un’esistenza triste ed economicamente deprivata. Tre dei suoi quattro figli si tolsero la vita, come fece lui stesso e come aveva già fatto suo padre. La moglie si ammalò di nervi e fu infine rinchiusa in un ospedale psichiatrico. Sua figlia morì di tisi. Gli editori con cui pubblicava (molto) lo pagavano male e la critica, almeno a quei tempi, non lo amava.
Salgari era contrariato e preoccupato per il progresso tecnologico che agli inizi del secolo scorso illuminava strade e case, faceva correre veloci macchine e palloni aerostatici, e presto, secondo i suoi presentimenti, avrebbe condotto l’umanità alla malattia e alla distruzione.
In un romanzo pubblicato nel 1907, intitolato Le meraviglie del Duemila, lo scrittore immagina che i protagonisti della sua storia si diano una morte artificiale, con un farmaco che li addormenterà per cento anni, e che risvegliandosi appunto nel 2003 scoprano le invenzioni e gli incredibili passi avanti che quella tecnologia, cento anni prima appena agli albori, aveva fatto compiere all’essere umano.
La sua immaginazione è talmente fervida da raggiungere e superare la realtà che oggi ci riguarda. Descrive tunnel che si immergono nel mare e consentono di spostarsi da un continente all’altro, automobili volanti e persino la televisione. Le notizie, in questo futuristico racconto –inusuale per l’autore d’avventure, pirati, giungle e tesori- sono ‘spedite’ direttamente in casa della gente, e i pasti si possono ordinare ai ristoranti di tutto il mondo ed essere recapitati da lì attraverso un enorme tubo che parte da quelle lontane cucine fino alle tavole da pranzo, servendo portate calde ed eliminando la necessità di procurarsi cibo e domestici che lo preparino.
Quella a cui dà seguito lo scrittore è un’immaginazione della fuga, dell’estraniamento, che aiuta, almeno per un po’, a trasferirsi altrove: frutto dei timori e delle frustrazioni per un mondo ostile quanto incombente. In questo tipo di attività l’alternativa che si costruisce ha esiti alienanti come quelli da cui si è quotidianamente perseguitati: una volta conclusa si fa ritorno, e la carica ricevuta si esaurisce in un breve sospiro.
È questo il suo ‘utile secondario’: dare un sollievo, riscattare un tempo e uno spazio troppo umilianti per essere riconosciuti come propri, creare un rifugio che aiuti a sopportare i ‘dardi dell’iniqua fortuna’. A prezzo, naturalmente, di non farci mai muovere da dove siamo, dalle nostre vite che non vanno davvero da nessuna parte, per quanto viaggiamo.
Tutto l’opposto di quell’altra immaginazione, meno consolatoria e più esigente, che si chiama utopia: di un luogo che non c’è, che non somiglia nemmeno a quello in cui abitiamo, che è tutto da inventare, da zero, daccapo. Un genere di fantasia che ci costringe a sperare, a lavorare contro ogni evidenza, qui e ora, perché un giorno si avveri il sogno che meticolosamente articoliamo, perché abbia sede e un nome quel posto che osiamo preannuciare col rischio di essere presi per pazzi o, nella migliore delle ipotesi, per simpatici e ingenui idealisti.
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