Bellegra, se la vacanza diventa un alibi

Il racconto di Filippo Schillaci ci guida attraverso il millenario scontro tra città e campagna. I ricordi di un borgo incontaminato, Bellegra, immerso nei boschi dei monti Prenestini e di un altro trasformato dalle brame dell'imprenditoria locale, ci conducono a considerazioni cruciali tanto più per i tempi che viviamo.

Bellegra, se la vacanza diventa un alibi
"Penso a Bellegra. Si stava bene lassù… Bei momenti" mi scrisse poco tempo fa una persona con cui ero stato in vacanza, anni prima, in quel luogo. Bellegra è un piccolo paese dei monti Prenestini circondato da splendidi boschi fra i quali la presenza umana è, almeno apparentemente, rarefatta. Ricordo che erano state delle gradevoli vacanze; decisamente gradevoli. E decisamente diverse dalla vita di tutti i giorni che ciascuno conduce, immerso fra le mille emanazioni del suo mondo. Il luogo in cui abita questa persona è una grande casa a ridosso di una trafficatissima strada statale. Dietro la casa c’è un vasto terreno che, la prima volta che lo vidi, era ricoperto da un fitto strato di erba lussureggiante e, nella sua parte più lontana, ospitava un boschetto di aceri e quattro grandi castagni che nel loro insieme sembravano formare la navata di una cattedrale. Due monumentali ciliegi sorgevano dalla parte opposta. Il rumore della vicina strada giungeva anche lì ma attutito, e tutto quel lussureggiare di vegetazione e la maestosità degli alberi ne facevano quasi dimenticare la presenza. Davvero, anche lì in certi momenti sembrava di essere lontanissimi da ogni presenza umana. Ricordo che feci molte proposte a questa persona, le parlai di permacoltura, proposi di piantare nuovi alberi (avevo in vivaio otto castagni e altrettante querce), alcuni li portai. Come finì? Finì che questa persona mi ascoltò, mi ascoltò; con molta accondiscendenza mi ascoltò… e acconsentì infine affinché il terreno fosse ceduto a un tale che ne fece selvaggio scempio trasformandolo in un deposito di ferraglie e, per colmo di beffa, di alberi fatti a fette sui quali ha dominato per anni, incessante, il ringhiare di una motosega. Com’è normale che sia in fondo: quell’uomo è un imprenditore, utilizza quel terreno in cui "non c’era niente" per una seria attività produttiva, lo fa rendere e dunque lo valorizza. Giusto? Quanto agli alberi che io avevo intenzione di piantarvi, rimasero nei loro vasi, e vi morirono nell’incuria. Fine della storia. Poi venne quel misero surrogato che furono le vacanze a Bellegra. Detto fra noi, venne anche la mia impotente indignazione, ma questo non ha importanza: che volete che sia la rabbia di un tipo strambo che, alla sua età, giocherella ancora con le piantine? Eppure quando, pochi giorni fa, ho letto di un’altra indignazione, quella espressa da Jeremy Rifkin a proposito di un episodio solo apparentemente molto più grande, il disastro petrolifero del golfo del Messico, ho trovato naturale affiancare la mia alla sua. "Quello che è avvenuto nel Golfo del Messico - scrive Rifkin - è la guerra più cruenta dei nostri anni e dovrebbe davvero scuoterci tutti. Alla mia età cerco di non arrabbiarmi più, ma quando ho compreso la grande perdita che stiamo subendo, che questo avrà ripercussioni per generazioni e generazioni sulla vita delle persone, non ce l'ho fatta. Dovrebbe essere un campanello d'allarme per tutti, negli Stai Uniti ma anche qui in Europa e nei Paesi in via di sviluppo. È come con la guerra in Vietnam, che ha risvegliato le coscienze e ha fatto nascere il movimento pacifista". Può sembrare assurdo mettere sullo stesso piano il disastro del Golfo del Messico a questo episodio in fondo di minima, quotidiana desolazione. Ma non lo è se si pensa che la gran parte degli episodi della guerra globale che l’umanità ha dichiarato alla Terra non è fatta di grandi eventi catastrofici bensì da una miriade estremamente polverizzata di microdevastazioni locali. Episodi di fronte ai quali non si accende nessuna telecamera, non si leva nessuna condanna, non si risveglia nessuna coscienza. E che dunque continuano giorno dopo giorno a macinare il mondo fra le loro ganasce. Ma torniamo alle vacanze a Bellegra. È una storia vecchia che si ripete da non saprei dire quanto tempo. Prima creano il deserto attorno a loro, si circondano di desolazione, squallore, morte, devastazione, o semplicemente di un grigio vuoto senza significato. Ci sguazzano dentro dicendosi l'un l'altro che in fondo è normale, allargano le braccia e si palleggiano i loro "È così che va il mondo", "Che ci vuoi fare?", "Per il progresso bisogna pur…" e via così, manfrina dopo manfrina. È in questo modo che, pezzo dopo pezzo, stanno riducendo un intero pianeta a una latrina, una fogna, una discarica, un mattatoio. E poi? Poi cercano un posto dove loro non sono ancora arrivati, con le loro discariche, le loro ferraglie, il loro progresso cingolato, un posto dove l'erba è ancora erba e gli alberi sono ancora alberi. Ci trascorrono un paio di giorni e poi ritornano al loro mondo spazzatura col ricordo dei "bei momenti" trascorsi lì dove la profusione di peste che essi si trascinano dietro non ha ancora sparso il suo contagio. Hanno così inventato le "vacanze", e già nel nome che hanno dato loro si intuisce la percezione capovolta del mondo che essi hanno: vacanza, da vacante, vuoto. "Periodo di interruzione di attività lavorativa", recita il dizionario, una definizione tutta al negativo, tutta rivolta al non essere, all’insignificanza. Chiamano vuoto il periodo in cui si interrompe la loro incessante produzione di vuoto. Chiamano vuoto il tempo che impiegano a riempirsi in fretta e furia di qualche brandello di tutto ciò di cui in ogni altro istante della loro vita svuotano il mondo. È forse per questo che io in "vacanza" da molto tempo non ci vado più. È qualcosa che fa parte del loro modo di (non) vivere, che mi interessa sempre meno. Ciò che mi interessa invece è che il mondo intero potrebbe essere, e un tempo di fatto era, come i luoghi che circondano Bellegra, e che ciò non contrasterebbe col benessere materiale dell’uomo, anzi tutt’altro. Ecco perché, alla mia età, "giocherello" ancora puerilmente con "gli alberelli". Perché non identifico il benessere e "le cose serie" con lo spargere la desolazione nel mondo, ma col renderlo migliore, e migliore significa fra l’altro più verde, salubre, vivo. Ecco perché da anni non vado più a Bellegra: perché mi interessa riportare Bellegra in ogni altra parte del mondo, lì dove loro - gli estimatori della ferraglia e del ringhiare delle motoseghe - l’hanno ormai cancellata. In quel luogo dietro la grande casa assediata dalla strada statale, sul quale io non posso nulla, ormai non accadrà.

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