“Non basta stare vicini per esserlo, e la maggior parte del tempo, in ogni posto, ci sentiamo come viaggiatori su un treno ad alta velocità, dove conta soprattutto il non detto che ci attraversa, l’angoscia che civilmente cerchiamo di dominare”.
Non si fa in tempo a partire che tutti si mettono voracemente al lavoro. Al telefono parlano con segretarie e soci, chiedendo “ma è una possibilità o una scelta obbligata?”, “dovremmo valutare rispetto all’esigenza del cliente?”, “questa polizza assicurativa non ti sembra che per noi possa risultare interessante?”, “mi ricordi il nome dell’assistente di Picciani?’”. E così via.
Un altro apre il computer e contemporaneamente un aggeggio con cui dà direttive alla fidanzata dalla parte opposta del Paese, mentre lascia scorrere le immagini di un telefilm sullo schermo. La mamma fa mangiare la bambina che invece è un maschio e si chiama Mattia, la ragazza del sud vestita come un avvocato del nord si mette a fare le parole crociate.
Si incrociano le voci nel vagone, come fili di una rete in cui si resta impigliati o appesi. Non si ferma nessuno nemmeno un momento. Nessuno si lascia guardare nudo e semplice come succederebbe se ci fosse una vera intimità. Lo spazio del treno, che tiene stretti, a contatto per qualche ora (sempre meno), non elimina la distanza che ci separa, non solo dalla meta ma da noi stessi, reciprocamente. E muoversi, lavorare, parlare al telefono - che si impongono prepotenti come forme di presenza, qualche volta di maleducata invadenza - potrebbero non essere che strategie di difesa, protezioni da sguardi ben più acuti.
Forse a stare fermi ci si troverebbe gli uni davanti agli altri, con tutti i pensieri bene in vista, i gusti, i dubbi, le tristezze, le delusioni delle giornate che non si realizzano, il desiderio inesauribile verso persone che non incontreremo neppure una volta arrivati all’appuntamento.
Il massimo del chiasso e dell’operosità ci nascondono al compagno di viaggio, anche se per un po’ quello ascolta le nostre conversazioni private, vede come e che cosa mangiamo, con che faccia ci ridestiamo al controllo dei biglietti. Non basta stare vicini per esserlo, e la maggior parte del tempo, in ogni posto, ci sentiamo come viaggiatori su un treno ad alta velocità, dove conta soprattutto il non detto che ci attraversa, l’angoscia che civilmente cerchiamo di dominare.
Per esempio questo papà milanese, che telefona alla figlia e per un po’ sembra parlare con sua moglie: in un tono così dolce le dice “sei stanca, amore?”, “ci vediamo domattina, perché quando arrivo tu dormi”, “pronto? pronto? Pronto”. La linea cade e lui non può mettersi a gridare. È un giovane uomo grasso, con un pizzetto sul bel viso tondo e una spessa fede al dito. Già troppo stretto dalla camicia, dal sedile, dal silenzio in cui chiude il proprio affetto insieme al telefono. E ogni altra possibilità, o scelta obbligata.