Il terremoto che ha messo in ginocchio l'Emilia ha colpito anche i magazzini di Parmigiano Reggiano. Negli ultimi giorni si sono dunque moltiplicati gli appelli per salvare il formaggio 'terremotato' e sostenere i caseifici che producono il prestigioso parmigiano. C'è però anche chi, come Filippo Schillaci, ha deciso di non rispondere a questo appello, in nome di “una solidarietà di ordine superiore”, quella verso il pianeta..
Considero la solidarietà qualcosa di più di un dovere. La considero un modo di essere connaturato all’individuo sano. Doppiamente mi indigna dunque il vederla praticata in maniera inopportuna, l’udirla nominare a proposito di azioni che ne sono la grottesca parodia se non la negazione. Sta accadendo ancora una volta in questi giorni, dopo il terremoto che ha colpito Torino provocando seri danni anche negli stabilimenti dell’industria automobilistica che ne è il simbolo: la FIAT.
E qui nasce la grande idea della dirigenza aziendale: comprate le automobili danneggiate dal sisma; sono un po’ ammaccate ma funzionano benissimo. Fatelo per solidarietà con le vittime del terremoto e con l’industria automobilistica che qui crea tanti posti di lavoro e che è ormai una tradizione consolidata, un motore dell’economia ecc. ecc. Prezzi equi. Sconti speciali per chi compra un SUV.
Non c’è stato nessun terremoto a Torino. C’è stato invece in Emilia la cui FIAT si chiama industria casearia, quella del 'prestigioso' parmigiano reggiano. Non si sono ammaccate le automobili ma le panciute forme di parmigiano, icone esemplari di quell’estetica dell’obesità che ormai dilaga ovunque fra gli indigeni dei paesi industrializzati. Il resto però è accaduto davvero. E immagino che siano in molti in questi giorni a comprare ancor più del solito il parmigiano in risposta all’appello. E a sentirsi 'solidali' con chi è in difficoltà. Se poi l’appello viene da chi può ammantarsi della coccarda del biologico o del pedigree di piccolo produttore o di una qualunque aura di produzione alternativa allora gli si spalanca anche l’orizzonte dei GAS, del mercato solidale, degli ambientalisti. Tutti lì a comprare formaggio e a sentirsi solidali.
Io no. Perché c’è una solidarietà di ordine superiore su cui modello le mie azioni: quella verso il pianeta. Il male, diceva Lanza del Vasto, consiste semplicemente nell’operare per il bene di una parte. Infischiandosene, aggiungo io, di tutto il resto. Bene, guardiamole, queste appetitose forme di parmigiano, ovvero ciò che è uno degli aspetti più discutibili e deleteri dell’economia emiliana, dal punto di vista di tutto il resto e capiremo perché comprarle non c’entra nulla con la solidarietà, capiremo anzi perché se esse non esistessero sarebbe meglio.
Parliamo innanzi tutto di impatto ambientale: produrre qualsiasi cosa costa, no, non in termini economici ma in termini di sottrazione di risorse alla biosfera. È questo fra l’altro il motivo per cui il paradigma della crescita produttiva 'infinita' è un puro delirio. Ci sono poi cose produrre le quali costa più che produrne altre. Nel caso degli alimenti, produrre quelli di origine animale costa di più, spesso molto di più di quelli di origine vegetale.
I quattro alimenti a più alto impatto ambientale sono le carni rosse, il pesce, il latte e, se lo è il latte, a maggior ragione il formaggio. Diciamolo meglio: l’industria casearia, in quanto parte di quella zootecnica su cui ovviamente si basa, è fra tutte le attività umane una di quelle che più stanno devastando la Terra.
“Ma è un cibo buono, sano”, protesteranno a questo punto i caseificatori. “Fa tanto bene ai nostri bambini con tutto il calcio che contiene! Non sono forse loro più importanti di questo 'ambiente' con cui vi riempite la bocca?” No, non lo sono. Perché senza quell’'ambiente' da cui ritenete di poter prescindere non potrebbero esistere loro, voi, io, niente e nessuno.
“Ma fa parte della nostra tradizione”, possiamo ben immaginare che continuino a questo punto i caseificatori. “Fa parte della nostra cultura alimentare. Riuscireste a immaginarla senza il parmigiano?” Sì, riuscirei. E, ammesso che non si possa, ecco una tradizione senza futuro, ecco un’identità culturale da modificare. Che ce ne facciamo di una tradizione, di una cultura che, proprio come quella dell’automobile, dà il suo contributo a portarci verso il baratro?
“Ma lo si è mangiato sempre. Non bisogna essere così integralisti!”, possiamo immaginare che obiettino ancora i caseificatori. No, non sempre, solo da qualche migliaio di anni. Per gran parte della presenza umana sulla Terra il formaggio non si è neppure saputo cosa fosse. E, quanto all’integralismo, è mai esistita una sociocultura più integralista di quella dell’Occidente industrializzato?
Quale più di essa è stata capace di vedere solo se stessa, concepire solo se stessa, farsi largo a calci e pugni nel mondo vedendo ogni altra entità, umana e non, come una risorsa da succhiare o come un ostacolo da annientare? Dovremmo piuttosto domandarci quanto di questo integralismo ciascuno di noi, anche il più critico, il più alternativo, il più 'contro' di tutti noi ha assorbito negli anni della sua formazione, quanto di esso sta acquattato laggiù, nella parte più nascosta della nostra psiche a dar forma alle azioni e a mostrare come aberrante ogni invito a rientrare nell’ambito della normalità, ovvero degli equilibri ecosistemici, e al contrario come normalità anche la più folle aberrazione. Ecco in che modo si riesce a percepire come 'normale' anche una delle componenti più aberranti della sociocultura dei paesi industrializzati: il modo di mangiare.
Non a caso mi sono soffermato su chi in questa sociocultura si pone in maniera critica, alternativa. Ciò che più preoccupa infatti in questa vicenda è che fra coloro che ci stanno cascando ci sono anche persone impegnate nel campo della sostenibilità ambientale, perfino persone che si riconoscono nel paradigma della Decrescita. Anche loro, tutti a comprare formaggio. E a sentirsi solidali. Ho detto che ciò preoccupa, ma non che sorprende.
Già da un po’ mi sono reso conto che in Italia (non so altrove) il comune senso della sostenibilità alimentare soffre di uno scollamento totale rispetto alla realtà. Ma diciamo innanzi tutto quale è la realtà: la variabile più importante in assoluto della sostenibilità alimentare è costituita dalle scelte alimentari orientate verso i cibi vegetali. Al secondo posto (tre volte meno importante) c’è il metodo produttivo biologico. Al terzo posto (otto volte meno importante dal punto di vista delle emissioni di gas serra) c’è la distribuzione su scala locale.
Un sondaggio che stiamo effettuando sui GAS italiani mostra che la scala di priorità che quasi tutti ritengono corretta è pressoché invertita, con le scelte alimentari all’ultimo posto e il primo conteso fra distribuzione locale e produzione biologica. Insomma, un totale disastro. In un tale contesto nulla di strano che comprare formaggio non sia visto come un’aberrazione. Anzi, ho più volte notato che fra coloro che praticano il 'consumo critico', gli ambientalisti ecc. da qualche tempo sono molto in voga i corsi di caseificazione. Come dire: impariamo a dar mazzate alla Terra in prima persona anziché pagare qualcuno che lo faccia per noi. Forse però quando si parla del valore dell’autoproduzione non si intende propriamente questo.
Insomma, sembra proprio che il cosiddetto 'altro mondo possibile' in campo alimentare non sia altro che prendere il cibo del signor Rossi industrializzato, quello scintillante, cromato, metallizzato, plastificato, svestirlo e metterlo in abiti d’epoca. A nessuno sembra venire in mente che, sotto le trine e i merletti, è lo stesso cibo, a volte un po’ meno malsano, tutto qui. E che ciò di cui abbiamo bisogno, se vogliamo fermare la corsa pazza contro il muro, non è apportare lievi correzioni allo stesso presente bensì creare un altro presente. Il che significa innanzi tutto un altro cibo.
Ecco dunque perché io quel formaggio non lo compro. E la solidarietà? La solidarietà, quella vera, quella con la totalità del pianeta su cui vivo, consiste proprio nel non comprarlo. E cosa fare allora per i poveri caseificatori che hanno subito un così duro colpo? Ho una modesta proposta: potremmo fare una colletta per aiutarli a convertire le loro aziende in qualcosa di più sostenibile. Ad esempio una fabbrica di SUV. Sì, proprio quelle orrende, mastodontiche, grottesche cassapanche a motore che costituiscono la più recente, ridicola ed estrema degenerazione del consumismo su gomma. Faranno ancora danni producendo SUV, certamente, ma di meno.
Fonti:
Per l’impatto ambientale della zootecnia in generale:
AAVV, Livestock’s long shadow, FAO, Roma, 2006
AAVV, Assessing the environmental impacts of consumption and production, UNEP, 2010.
Per il rapporto fra impatto ambientale di scelte alimentari e produzione biologica:
M. Tettamanti, L. Baroni e altri, Evaluating the environmental impact of various dietary patterns combined with different food production systems, European Journal of Clinical Nutrition, ottobre 2006.
Per il rapporto fra impatto ambientale di scelte alimentari e distribuzione, con riferimento alle emissioni di gas serra:
L . Weber e H. S. Matthews, Food-Miles and the Relative Climate Impacts of Food Choices in the United States, Environmental Science & Technology, Vol. 42, No. 10, 2008.
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